Chiusi, Brenno e il saccheggio celtico di Roma (parte I)

Da tempo nella pianura padana si erano venute ad insediare popolazioni celtiche provenienti da oltralpe: Salassi, Insubri, Cenomani, Lepontini, Lingoni, Boi e Senoni…per i romani erano tutti “Galli”. Si erano, tra l’altro, fuse con le popolazioni celtiche autoctone, dell’area di Golasecca (che avevano radici lontane, nelle genti della cultura protogolasecchiana di Canegrate, e dunque molto prima del 1000 a.C.). Così, quando intorno al 390 a.C. a Roma giunse la notizia che lassù, nella Pianura Padana, queste popolazioni galliche si stavano muovendo verso sud alla ricerca di nuovi spazi, un brivido di terrore agitò la popolazione dell’Urbe

Tito Livio,
 lo storico romano originario di Padova che offre un ampio resoconto di questo periodo storico nella sua monumentale opera, pone alla base del rovescio romano una banale storiella d’alcova: a detta dello storico patavino sembra che un certo Arunte, vinaio originario della cittadella etrusca di Chiusi, avendo scoperto una tresca tra sua moglie e il patrizio etrusco Lucumone, e volendo indi vendicarsi dell’affronto subito rivalendosi contro la sua città, chiamasse i Celti offrendo loro del buon vino in cambio del loro aiuto, e allettandoli quindi con la grande disponibilità di beni esistente a Chiusi. Gli abitanti di Chiusi, terrorizzati, chiesero aiuto ai Romani. Questi inviarono un paio di ambasciatori per chiedere ai Celti quale fosse lo scopo reale della loro minacciosa avanzata nel territorio etrusco.

Scrive Tito Livio V, 33:

“Vuole la tradizione che questo popolo, attratto dalla dolcezza dei prodotti e soprattutto del vino, che a quel tempo costituiva per loro un nuovo piacere, abbia attraversato le Alpi e si sia impadronito delle terre precedentemente abitate dagli Etruschi; chi poi avrebbe mandato il vino in Gallia sarebbe stato un tale Arrunte di Chiusi spinto dall’odio per Lucumone che gli aveva sedotto la moglie…

Prosegue Tito Livio, V, 35

Gli abitanti di Chiusi mandarono ambasciatori a Roma per chiedere aiuto al Senato. Quanto ad aiuto non ottennero nulla; furono invece mandati in qualità di legati tre figli di Marco Fabio Ambusto, i quali, in nome del popolo romano, ammonissero i Galli di astenersi da atti di ostilità contro alleati e amici del popolo romano che non li avevano in nessun modo provocati.

Dunque nel 390 a.c. (per alcuni testi nel 387 a.c.), approfittando dell’indebolimento degli etruschi, la tribù dei senoni, al seguito del suo comandante Brenno (ma è dubbio se questo fosse in effetti un nome proprio o un titolo onorifico) ,decise di spingersi al sud, alla ricerca di nuovi territori, ma soprattutto di nuovi bottini.

Giunsero a Chiusi e la posero sotto assedio.Gli abitanti della città, chiesero aiuto a Roma, circostanza peraltro piuttosto singolare considerando quanto fossero stati difficili, nel passato, i rapporti tra le due città.

Una delegazione di romani, andò dunque a parlamentare con i “celti”, ma la trattativa non ebbe un buon esito e gli ambasciatori romani si schierarono apertamente con gli abitanti clusini.

In tale occasione, l’ambasciatore Quinto Fabio, venuto evidentemente a Chiusi con intenti già di per sé bellicosi, trucidò senza motivo un capo dei Celti. L’affronto generò la collera e la reazione dei “barbari”, che, comandati da Brenno, decisero di marciare direttamente su Roma per ottenere giustizia. Racconta lo stesso Livio che l’Urbe fu inondata dal panico.


Scrive Tito Livio:

Dal canto loro, i Galli, quando seppero del provocatorio onore fatto ai violatori del diritto delle genti e del nessun conto che si era avuto della loro ambasceria, furenti di ira, che quella gente non sa dominare, tosto levarono il campo e con rapida marcia si incamminarono…….. Tutto, davanti e all’intorno, era ormai occupato dai nemici, e quella gente per istinto portata a inutili schiamazzi faceva rintronare orrendamente la regione di canti selvaggi e di urli strani (V, 37). Tanto non solo la fortuna, ma anche l’abilità tattica stava dalla parte dei barbari (V, 38)

La notizia mise in agitazione il Senato, che fece un ricorso alla leva generale “tumultus”, per cercare di fermare l’invasione gallica, ponendo uno sbarramento sul corso dell’Allia (in latino “Clades Alliensis”), un piccolo affluente del Tevere. Venne nominato in fretta dittatore M. FURIO CAMILLO (forse, sulla sua figura essitono molti dubbi). Ma l’esercito romano, venne rapidamente sbaragliato ed i soldati scapparono, forse impauriti dall’aspetto insolito e particolarmente feroce dei loro avversari.

Stando agli storici antichi, questi guerrieri alti, biondi e incredibilmente forti avevano il costume di lottare in modo furioso, nudi, quasi fossero posseduti da una furia soprannaturale, una forza magica, o meglio divina, che li possedeva, e terrorizzavano i nemici urlando, picchiando le spade con gli scudi, suonando trombe da guerra che emettevano suoni terrificanti, e cantando canti selvaggi.

Fu sull’Allia dunque, un fiumiciattolo a undici miglia dalla città, che i tribuni militari romani approntarono alla meglio e in fretta le difese. Fu costruito un terrapieno che doveva servire come luogo di avvistamento e come base per le riserve, alla sinistra del quale erano schierate le truppe. Se si fosse riusciti ad attirare i Celti, li si sarebbe potuti accerchiare facilmente e averne ragione in breve tempo. Ma Brenno, anziché attaccare il grosso dell’esercito, si gettò coi suoi sull’altura, investendo le riserve lì appostate e costringendole ad unirsi al resto delle truppe schierate sulla riva dell’Allia. I legionari iniziarono a fuggire senza nemmeno combattere; molti annegarono nel tentativo di attraversare il Tevere, ma i più furono raggiunti dal furore dei “barbari”. Solo i soldati dell’ala più esterna riuscirono a salvarsi, ritirandosi in parte a Veio, e in parte battendo a rotta di collo verso Roma.

Era il 18 luglio del 387 a.C. (o 390 a.C. secondo altre fonti), data che da quel momento in poi verrà tradizionalmente ritenuta nefasta nel calendario romano. Il Dies Alliensis, , il giorno della battaglia sul fiume Allia, fu segnato sul calendario come giorno nefasto per antonomasia e avrebbe accompagnato i Romani antichi per tutto il corso della loro storia

Molti di loro si rifugiarono a Veio oppure a Cere dove si unirono ad una parte della popolazione romana, che presa dal panico, aveva già abbandonato la città.

Brenno e i suoi tuttavia non seppero sfruttare la vittoria: invece di incalzare i Romani in città e annientarli, si dedicarono secondo il loro costume a celebrare la vittoria tra canti e banchetti. A Roma arrivarono solo tre giorni dopo, e la trovarono immersa in un silenzio spettrale. Tutti gli abitanti della città si erano trincerati sul Campidoglio; erano rimasti solo alcuni dei vecchi patrizi che, non essendo in grado di affrontare la battaglia, avevano deciso di morire dignitosamente seduti sui loro scranni, avvolti nelle loro toghe più preziose.

[ Articolo pubblicato il 25/02/06 e scritto da “Myrddin-Merlino” ]

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