I galli non trovarono dunque la benchè minima resistenza ed in poco tempo raggiunsero le mura di Roma, che trovarono completamente sguarnite. Nel corso dell’assedio, nella città si sviluppò un grande incendio che bruciò gran parte delle abitazioni, che allora erano in legno con tetti di paglia.I galli penetrarono facilmente nella città, poichè i difensori avevano persino dimenticato di chiuderne le porte, e, non trovando alcuna opposizione, si dedicarono al saccheggio,.
I romani avevano in buona parte abbandonato la città, altri si erano chiusi in casa e altri ancorai si erano rifugiati nella rocca del Campidoglio, che per le sue caratteristiche era difficilmente espugnabile. Lì vi avevano portato il “fuoco sacro”, sotto la custodia delle “vestali”, e le immagini dei loro dei. Solo i senatori, come detto, erano rimasti al loro posto, nella Curia, dove vennero tutti uccisi, secondo Tito Livio.
Narra Livio che i Celti, aggirandosi nella città e trovandola vuota, avvistando questi strani figùri, li scambiarono per delle statue e ne ebbero timore. Uno dei guerrieri per verificare se fossero vivi, tirò ad uno di essi la barba: questo reagì colpendolo alla testa con un bastone, scatenando la reazione dei Celti. I patrizi furono massacrati tutti. Brenno decise poi di attaccare la rocca del Campidoglio.
Tito Livio (V, 47) narra:
In Roma, provveduto, poi, nel modo migliore che la situazione permetteva, a tutto quello che poteva servire alla difesa della rocca, gli anziani ritornarono alle loro case ad attendere l’arrivo dei nemici, fermamente decisi a morire. Quelli di essi che avevano coperto cariche curuli, volendo morire con i segni distintivi della loro pristina dignità, delle magistrature esercitate e dei loro meriti, rivestirono la sontuosissima toga usata da chi reggeva il carro degli dei e da chi riportava il trionfo e si assisero sulle sedie eburnee nel centro della casa. E narrano anche alcuni che, ripetendo una formula recitata dal pontefice massimo Marco Folio, si siano offerti vittime per la patria e per i Romani Quiriti. I Galli o che la pausa della notte avesse affievolito il desiderio di combattere, o perché non avevano ancora conosciuto le incertezze di una battaglia, e nemmeno ora dovevano ricorrere a violenti assalti per conquistare la città, senza furore, senza entusiasmo, fecero il loro ingresso in Roma il giorno seguente da porta Collina, tutta aperta, e giunsero al Foro, volgendo gli sguardi dai templi degli dei alla rocca che, sola, pareva minacciasse guerra.
Poi, lasciato un piccolo presidio per non correre il pericolo di un attacco dalla rocca e dal Campidoglio mentre erano dispersi qua e là, si divisero per predare nelle vie completamente deserte: gli uni raggruppati fanno irruzione nelle case vicine, gli altri corrono a quelle più lontane, credendole più ricche di preda, perché intatte; poi, di nuovo, presi da paura per la stessa solitudine, nel timore di essere sorpresi così isolati dai nemici, tornano a riunirsi nel Foro e nelle sue adiacenze: e lì, trovando chiuse le case del popolo, aperti invece gli atri di quelle signorili, rimangono più titubanti ad entrare in queste che in quelle, perché nei vestiboli aperti intravedevano, con un senso di rispetto religioso, uomini seduti che parevano altrettante divinità non solo per l’abbigliamento e per l’aspetto più che umani, ma anche per la maestà che spirava dai loro volti severi.
E si dice che, mentre rimanevano estatici a riguardarli come fossero statue, un Gallo si fece coraggio ad accarezzare la barba di uno di essi, che allora tutti portavano lunga, Marco Papirio, che lo colpì sul capo con lo scettro d’avorio: di qui l’ira del gallo e l’inizio della strage, estesa poi a tutti gli altri seduti sui loro seggi. Massacrati i capi, non venne risparmiato più nessuno; le case furono saccheggiate e, quando furono spogliate di tutto, incendiate.

I galli, dopo aver saccheggiato e distrutto parte della città (ma non tutta, come nota con meraviglia Tito Livio, forse abituato a leggere il ben diverso trattamento che i romani riservavano alle città sconfitte), decisero allora di attaccare il Campidoglio, e qui si realizzò, secondo la tradizione, il primo degli episodi leggendari (probabilmente inventati di sana pianta in epoca posteriore) con i quali i romani cercavano probabilmente di compensare la forte umiliazione subita.
Secondo questa leggenda (che gli storici giudicano inventata di sana pianta da annalisti romani compiacenti con le sorti magnifiche e progressive dell’urbe eterna), i galli di Brenno avevano scoperto un cunicolo sotterraneo che arrivava all’interno della rocca capitolina e durante una notte lo utilizzarono per espugnare l’ultimo baluardo difensivo di Roma. Ma il tentativo di intrusione, fu sventato dalle oche sacre a Giunone, che spaventate cominciarono a starnazzare, svegliando il comandante della guarnigione, l’ex console Marco Manlio, il quale si oppose con decisione ai primi invasori, respingendoli.
In virtù di questo episodio, Marco Manlio, venne chiamato Capitolino. Intanto i galli cominciavano a subire le prime sconfitte: un loro campo, venne distrutto da un esercito composto da cittadini di Ardea e guidato da Furio Camillo, il comandante romano che, dopo aver conquistato Veio, era stato esiliato a causa delle sue posizioni eccessivamente antiplebee. Brenno cominciava ad essere stanco di Roma, quello che c’era da razziare, l’aveva già razziato, il Campidoglio si dimostrava inespugnabile, e gli episodi di resistenza aumentavano. Così propose ai magistrati romani di riscattare la città: gli invasori galli avrebbero abbandonato Roma in cambio di mille libbre d’oro.
I Celti avevano bruciato tutto e non avevano più rifornimenti. Brenno pretese una somma d’oro esorbitante, che solo a fatica poteva essere reperita. Mentre l’oro veniva pesato, i Romani iniziarono a mettere in giro la voce che i Celti stessero usando pesi falsi per imbrogliarli. Alle proteste dei magistrati, Brenno, con arroganza e determinazione sovrana, rispose gettando la sua spada sulla bilancia, pretendendo in questo modo un’ulteriore quantità di oro, e contemporaneamente urlando in un latino stentato: “Vae Victis” (guai ai vinti).
Tito Livio (V, 48) narra:
“… mancando il nutrimento – i servizi di guardia si susseguivano, e il corpo indebolito quasi cedeva sotto il peso delle armi -, fu presa la decisione di arrendersi o di riscattarsi, quali che si fossero le condizioni, tanto più che i Galli davano aperta assicurazione che avrebbero tolto l’assedio dietro un compenso non eccessivo. Il senato tenne seduta e affidò ai tribuni militari l’incarico di trattare. Quinto Sulpicio e Brenno, capo dei Galli, vennero ad un abboccamento e si accordarono per un riscatto di mille libbre d’oro: a tanto si comprava il popolo che tra breve avrebbe avuto il dominio del mondo. Il patto, di per se stesso umiliantissimo, fu per di più aggravato da un’indegna prepotenza: i Galli apportarono pesi alterati, e poiché il tribuno non li voleva accettare, il Gallo insolente vi aggiunse la propria spada, e fu udita allora quella parola intollerabile per un Romano: “ Guai ai vinti”.
E qui accade, secondo una tradizione assai tarda e fin troppo fantasiosa, il secondo episodio leggendario: mentre i romani chiedevano tempo per procurarsi l’oro che mancava, Camillo (che secondo alcuni studiosi era già deceduto da tempo) raggiunse Roma con un nuovo esercito e trovandosi di fronte Brenno gli mostrò la sua spada e gli urlò in faccia:
“Non auro, sed ferro, recuperanda est patria” (non con l’oro, ma con il ferro, si riscatta la patria).
Le circostanze della presunta riscossa romana (che pare essere una invenzione posteriore per gratificare la coscienza di color che domineranno poi il mondo occidentale) vengono così delineate da Tito Livio (V, 44):
(parla Camillo) “…Codeste che ci corrono addosso alla rinfusa sono genti a cui natura diede un gran corpo e facili entusiasmi più che non fermezza d’animo; perciò nella lotta si avvantaggiano più del terrore che non della forza….Sazi di cibo e di vino ingordamente trangugiati, al sopraggiungere della notte si sdraiano a dormire dove e come capita, lungo i corsi d’acqua, senza provvedere a difese, senza sentinelle, senza corpi di guardia, ora poi resi anche più incauti del solito dai successi….”
Fu così che (racconta la versione poco attendibile di Tito Livio) l’esercito romano si scagliò contro l’invasore, costringendolo alla fuga. Furio Camillo (che forse era già deceduto da tempo) seguì i galli per un tratto, sconfiggendoli a più riprese, per poi tornare a Roma, dove ricevette un grande trionfo. Fu proprio lui ad avviare la rifondazione della città: Roma era stata ferita gravemente, ma non era ancora morta e dopo pochi anni avrebbe ripreso il suo processo di grande espansione. In realtà Camillo (se si vuol seguire Tito Livio) fu nominato dittatore e cercò di rimettere insieme i cocci di quello che era rimasto, pregando i suoi concittadini di non abbandonare la devastata Roma per l’ancora intatta e da poco conquistata Veio. Tuttavia L’intervento di Camillo e la sua vittoria sui Galli non sono mai esistiti nei termini riportati fantasiosamente da Tito Livio.
Camillo non è neanche nominato da Polibio (che è un autore ben più antico, di Livio, e quindi più vicino agli eventi) ed Aristotele, che scrisse appena cinquant’anni dopo la vicenda, attribuisce al salvatore di Roma il nome di “Lucio”. Il prenome di Camillo era “Marco” e Lucio probabilmente è Lucio Albinio, che portò in salvo i tesori sacri dell’Urbe a Cere. Inoltre, della presunta vittoria romana non ne sapevano nulla gli storici prima del II secolo; dunque la vicenda fu sicuramente inventata per salvare la reputazione di Roma, in quel periodo in piena espansione.
Scrive infatti Polibio, I; 6: “i Galli conquistata Roma con la forza, la occupavano tutta, eccetto il Campidoglio. Allora i Romani, dopo aver patteggiato la cessazione delle ostilità a condizioni favorevoli ai galli …”: ovvero consegnarono l’oro in cambio dell’abbandono dell’urbe, senza null’altro avere da dire o fare.
Anche se da quel momento e per quasi mezzo secolo, Roma, dovette fare fronte a molti conflitti nei quali i suoi tradizionali avversari, volsci, equi, etruschi e latini, tentarono di approfittare del suo particolare momento di debolezza. Anche i galli provarono ancora a saccheggiarla, durante le loro tipiche scorribande, ma stavolta senza successo.
Marco Manlio Capitolino, paradossalmente, passato dalla parte della plebe, venne “proditoriamente” accusato di tradimento dai patrizi e gettato dalla rupe Tarpea (che pure aveva coraggiosamente difeso). Gli venne imputatata sopratutto l’attività di difesa intransigente dei diritti della plebe, oppressa dallo strapotere dei patrizi, e pagò con la vita il suo atteggiamento politicamente rivoluzionario..
One thought on “Chiusi, Brenno e il saccheggio celtico di Roma (parte II)”