I colori dei tessuti nell’antichità: blu romani e blu celtici

Colore: quali fonti per la ricostruzione storica? 
Ricostruire la storia dei colori in uso nell’antichità è un problema complesso, che passa attraverso la storia delle conoscenze tecnologiche, della chimica empirica, dei materiali disponibili, nonché attraverso l’archeologia e l’analisi linguistica.Questo vale soprattutto per i colori usati nel campo tessile, ovvero le tinture, differenziate dai pigmenti in quanto contrariamente a questi le loro molecole non vengono “spalmate” sul supporto a costituire un film continuo (è quello che accade ad esempio dipingendo una tavola lignea o una superficie muraria) ma aderiscono una ad una alle asperità della fibra tessile. Mentre per i pigmenti numerosissime opere d’arte (affreschi, tavole e sculture lignee, pergamene) testimoniano l’utilizzo di molteplici composti minerali, con tecniche di preparazione spesso raffinate, più labile è il filo da seguire nel campo dei tessuti. La loro conservazione è infatti difficoltosa, e, soprattutto per le epoche più antiche, il numero di reperti a disposizione è relativamente ridotto. Inoltre il colore è un elemento effimero, che si altera facilmente alla luce o in condizioni ambientali particolari, quali quelle di seppellimento (ambienti ossidanti o riducenti, presenza di sostanze tanniche, tracce di elementi metallici etc.). Le analisi spettrofotometriche permettono comunque agli archeologi di rintracciare le molecole prodotto dell’alterazione delle sostanze coloranti anche su esigui frammenti di tessuto, e questo fornisce indicazioni e conferme sull’uso nell’antichità di specifiche piante tintorie; analisi di questo tipo sono state condotte ad esempio dagli esperti del museo di Londra sui frammenti tessili scavati nei depositi medievali delle sponde del Tamigi, confermando quanto si conosceva dalla letteratura coeva. Per le epoche precedenti però pesino le testimonianze scritte divengono meno chiare; non sempre l’indicazione delle piante usate è univoca, e molto spesso inoltre subentrano problemi linguistici sul concetto stesso di “colore”.

Porpora e blu: due colori strettamente imparentati
La percezione del colore, e di conseguenza la scala cromatica adottatata, varia da popolo a popolo. Così, contrariamente alla nostra scala ad “arcobaleno”, legata alle conoscenze di fisica, i greci ad esempio disponevano i colori fra i due estremi bianco e nero (che per noi non sono colori), dal chiaro (giallo) allo scuro (blu); rosso e verde erano intermedi, e considerati equivalenti, tanto che Platone riteneva che il rosso potesse essere trasformato in verde aggiungendo un po’ di bianco… l’azzurro era “chiaro” così come il giallo, ed in molte lingue infatti i nomi dei due colori hanno la stessa radice (il latinio flavus, giallo, è del resto la radice anche di blau, blu). Plinio nell’elencare i quattro colori fondamentali dell’antichità classica, cita: bianco, nero, rosso e giallo, ma non menziona il blu, probabilmente solo perché esso era assimilato ad una sfumatura di nero, colore ben noto per le pitture murali, ma non ottenibile per i tessuti. La stessa confusione di nomi e di colori si trova negli autori romani parlando del blu e del porpora. Nei tessuti, il colore “ricco” per eccellenza dell’antichità classica era la porpora di Tiro, che oggi tendiamo ad identificare – erroneamente – come un colore della gamma del rosso. Essa era estratta da due molluschi, Murex e Thais, che danno due sfumature diverse; la porpora dell’impero romano non era il semplice Murex, ma come narra Plinio, il risultato del bagno prima nell’estratto di Murex, che dava il rosso, poi in quello di Thais, che conferiva una sfumatura bluastra caratteristica: essa arrivava sino al cosiddetto “oltremare purpureo” che considereremmo già nella gamma dei blu. Giusto per amore di correttezza noto qui che autori diversi attribuiscono in maniera contraria la sfumatura blu e quella rossa; ovviamente Plinio non parla di Thais haemastoma e di Murex brandaris, che sono le classificazioni attuali, quindi l’informazione passa attraverso l’identificazione da parte dei malacologi di questi Molluschi usati nell’antichità; si genera inoltre confusione perché in passato il genere Thais non era riconosciuto, e si trova incorporato nel genere Buccinum… comunque, il succo della faccenda è che le due bestiole fornivano sfumature diverse di colore, e giocando sulla loro combinazione si poteva ottenere un color porpora più o meno cupo, ovvero più o meno spostato verso il blu. L’indaco invece, molecola chimica alla base dei pigmenti blu per tessuti, è citato la prima volta da Vitruvio nel I secolo d. C.: secondo l’autore, esso è di origine vegetale, proviene dall’India e fornisce un bel colore blu-porpora. E qui diviene evidente la confusione, o meglio la percezione di uno stretto collegamento fra il porpora e i blu piuttosto che i rossi. Cita inoltre una seconda specie di indaco “che galleggia sulle tinozze delle manifatture di porpora” ed è denominato appunto “schiuma di porpora” … e qui la faccenda inizia a farsi più chiara: perché il porpora e l’indaco dell’antichità sono la stessa grossa molecola, con soli due atomi di bromo di differenza: mentre l’indaco infatti è C16H10N2O2, nella porpora due atomi di idrogeno sono sostituiti da due atomi di bromo (tecnicamente si trova indicata come dibromoindaco). La molecola di indaco si formava alla superficie della tinozza del tintore perché la porpora animale non ancora fissata su tessuto, se esposta alla luce tende a perdere atomi di bromo, generando così una molecola di indaco assolutamente analoga a quella di origine vegetale. Il porpora dell’antichità, sinonimo di regalità e autorevolezza, era quindi molto più vicino, sia chimicamente sia cromaticamente, all’altrettanto ricco blu dell’indaco, piuttosto che a tutta la gamma dei rossi di derivazione vegetale. Il blu ricavato dalla porpora veniva usato dai romani come vernice, ad esempio negli scudi da parata. Non veniva invece usato sulla stoffa perché sulla lana non si fissa bene: va trattato prima con un agente riducente, che lo trasforma in bianco, poi applicato, quindi, solo dopo l’asciugatura all’aria si trasforma in blu intenso…chiaramente, i tintori dell’epoca avevano dei problemi ad azzardare tutto ciò tingendo le stoffe con il cosiddetto bianco-indaco nella speranza che poi cambiassero colore…

Il blu dei Galli 
L’altra fonte del blu in epoca antica era vegetale, ed era Isatis tinctoria, erbacea diffusa in tutta Europa (fig.1); il colorante che se ne estrae è noto nell’Italia medievale col termine di guado, derivato –   analogamente ai termini in uso in Europa (es: inglese, wad) – da una radice che alcuni testi riportano come celtica, altri germanica: weid, termine grosso modo equivalente ad “erba selvatica”.

Fig. 1: Isatis tinctoria: la rosetta di foglie da cui si ricava il colore; luglio, Appennino marchigiano (foto Ferliga C.).

Plinio parla di glastum, derivandolo dal celtico glas, che indica l’azzurro, con riferimento ai laghi; la radice del termine usato dal naturalista romano è rimasta sino ad oggi nell’inglese glass, vetro, probabilmente perché i vetri primitivi contengono tracce di metalli che conferiscono loro un colore verdastro. Il guado ricavato da Isatis tinctoria era anche la fonte della tintura che usavano i Celti per dipingersi in battaglia, secondo quanto riferito da Cesare. Il colore quindi era ben noto nell’Europa celtica, e il suo uso su stoffa testimonia raffinate anche se empiriche conoscenze sulle caratteristiche ed il trattamento dei materiali.Isatis tinctoria è una brassicacea (ovvero appartiene alla stessa famiglia di cavoli, verze e broccoletti) originaria dell’Europa meridionale e nota fin dall’antichità anche per le sue proprietà medicinali; un ristretto uso alimentare è altresì documentato, e permane tutt’oggi in alcune aree italiane, quale la regione etnea.Si tratta di una pianta biennale, spontanea, robusta, che prospera su terreni poveri e sassosi. Nel primo anno di vita è caratterizzata da una rosetta basale di foglie lanceolate; successivamente nel secondo si estende in altezza sino ad un metro, con infiorescenze di colore giallo vivo riunite in densi racemi terminali, che si trasformano in silique pendule, scure, in cui è contenuto il seme (fig. 2); la fioritura è da noi fra maggio e luglio…

Fig. 2: Isatis tinctoria, i semi sulle piante di due anni;  luglio, Appennino marchigiano (foto Ferliga C.).

Il colorante è contenuto nelle foglie e si ricava in seguito al taglio di queste; tale operazione non danneggia la pianta, che emette nuove foglie, permettendo così dai quattro ai cinque tagli l’anno; tradizionalmente in molte zone di coltivazione veniva fissata comunque una data ultima per il taglio, per non alterare la qualità del prodotto, dato che verso l’autunno le proprietà tintorie della foglia andavano via via riducendosi; in alcuni statuti medievali dell’Italia centrale viene indicato a questo proposito il giorno di San Michele Arcangelo, cioè il 29 di Settembre.

Il guado: caratteristiche, lavorazione 
Le foglie di Isatis tinctoria contengono due composti organici complessi, il glucoside indacano e l’estere isatanoB; da entrambe le molecole si può ricavare la molecola dell’indaco, che ha la proprietà di tingere le stoffe di blu. Se si spezzano le foglie all’aria, queste due molecole subiscono infatti una reazione chimica spontanea dando luogo all’indaco propriamente detto. Tale composto però non è solubile in acqua, e quindi per poter essere utilizzato deve essere trattato chimicamente. La sostanza colorante non è quindi disponibile direttamente, ma va ricavata attraverso una lavorazione complessa; ciò giustifica in parte il valore elevato del colore blu nell’antichità. Il tessuto o il filato deve poi essere tinto in condizioni riducenti, e solo successivamente trasferito in condizioni ossidanti, in modo da ritrasformare in indaco le molecole già fissate sulla fibra. Questo si può ottenere abbastanza banalmente mantenendo per tutto il tempo del trattamento a caldo il bagno di tintura il più possibile isolato dall’aria o da fonti di ossigeno mediante un coperchio, ed esponendo poi all’aria il tessuto durante il lavaggio successivo. Il fenomeno dell’ossidazione all’aria è piuttosto rapido e molto vistoso: quelli che nel pentolone, al momento di scoperchiarlo, apparivano come straccetti di un patetico giallo limone acerbo, virano rapidamente attraverso tutta la gamma dei verdi per assumere poi un colore blu di intensità variabile, in funzione della concentrazione che la sostanza colorante aveva nel bagno di tintura. 

Fig. 3: campioni di tessuto tinto nella stessa pentola: sul primo filo seta, lane in tessuto e in filo, seta leggera, tinte col guado. Sullo sfondo la tintura con la radice della robbia. (foto Ferliga C.)..

Altri elementi di cui il tintore doveva tenere conto 
Oltre a ciò, i tintori dell’antichità conoscevano già molto bene la necessità di usare sostanze minerali per preparare le fibre in modo che la tintura potesse “montare”: si tratta della cosiddetta mordenzatura, che poteva essere eseguita in un bagno precedente, oppure contemporaneamente alla colorazione vera e propria. Il mordente che dà i risultati migliori per stabilità è l’allume di potassio, ben noto ed estratto sin dall’antichità, che inoltre essendo pressoché incolore non altera la tinta originaria; erano usati allo stesso scopo anche sali di ferro o di rame, che però danno al tessuto un colore rossastro o verdastro, che interagisce col blu della tintura; diverse erano quindi le sfumature ottenibili, a seconda delle sostanze usate. Il guado per le sue caratteristiche chimiche non necessita di una forte mordenzatura, e questo era sicuramente un vantaggio per i tintori dell’antichità; nel basso Medioevo si trovano distinti i tintori di guado proprio in quanto fanno un uso ridotto o nullo del bagno di mordenzatura; in epoche precedenti questo elemento riduce la necessità di approvvigionamento di sostanze minerali specifiche e le difficoltà ad esso connesse.

Un’ultima notazione riguarda i tessuti utilizzati; i colori vegetali montano infatti bene sulle fibre animali (fig. 3), mentre, a parità di quantità usata, danno risultati molto scadenti su fibre vegetali, quali lino o canapa. Questo spiega perchè nell’antichità e fino almeno a tutto il Medioevo, si parla sempre di lane e sete colorate, mentre in genere il lino era mantenuto come tessile non tinto, e ciò trova riscontro anche nei reperti, ad esempio quelli dei primi secoli dopo Cristo abbondantemente conservati in Egitto. 

Bibliografia. Il presente articolo nasce in parte da corsi sulla tintura naturale in cui sono state fornite dispense non pubblicate, integrate dagli appunti presi durante la frequenza; ultimo fra questi il corso di tintura naturale tenuto dal Prof. Panconesi presso il Museo del Colore di Lamoli-Borgo Pace (PU), luglio 2006.Per la trattazione della storia del colore ho fatto riferimento a: Philip Ball – Colore: una biografia – ed. Rizzoli

[ Articolo pubblicato il 15/05/06 e scritto da “arianna” – Carla Ferliga ]


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