Indoeuropeo: 5 – Aspetti culturali non linguistici / I parte

1 – Dalla lingua ai popoli
2 – Il problema delle origini
3 – Ipotesi sulle origini
4 – Il quadro complessivo alla luce dei dati etnici e linguistici
5 – Aspetti culturali non linguistici e relative comparazioni linguistiche
6 – Classificazione delle lingue Indoeuropee
7 – Cronologia
8 – Riferimenti

5 – Aspetti culturali non linguistici e relative comparazioni linguistiche  

L’aspetto culturale predominante delle prime comunità sedentarie è un’economia basata sull’allevamento del bestiame ma parallelamente a questa situazione si osserva il nascere della pratica dell’agricoltura.

Dalle pecore si ottiene la lana che viene lavorata per produrre capi d’abbigliamento ed elementi d’uso quotidiano. Di enorme importanza è il bue che svolge un ruolo fondamentale per l’economia e per questa ragione rappresenta un simbolo di ricchezza per eccellenza oltre ad essere metro di comparazione dei beni di scambio ancora per lungo tempo nell’età storica.

Il prezzo della sposa e le ammende sono pagate in bovini e nell’Irlanda gaelica ciò accade ancora a metà del primo millennio della nostra epoca.

5.1 – Nomadismo e sedentarietà

Il bue è ancora l’animale sacro per eccellenza in India ed in Iran e i termini che lo identificano in tutte le lingue indoeuropee, asiatiche ed europee, deriva dalla stessa radice: per i Greci βους, “bous”, per i Latini bōs, per gli Umbri būm, per i Volsci bīm, per i Celti di lingua gaelica  per i Gallesi di antico idioma brittonico buw e per i Bretoni bōu. Poi, a causa di trasformazioni glottologiche che seguono meccanismi alquanto semplici da ricostruire e che interessano il rapporto tra suoni labiali e gutturali, nel caso gwkw e b, abbiamo il sanscrito gauh, l’antico avestano gaus, l’antico persiano gav, l’altogermanico kow, l’antico baltico gou, il paleoslavo gove, e così via.

Gli Indoeuropei dovevano già aver raggiunto un certo grado di sedentarietà nel momento in cui si viene configurando il loro comune linguaggio. Non più esclusivamente nomadi, per quanto si spostassero frequentemente per ragioni inerenti alle necessità di sfruttamento dei pascoli o dei terreni da coltivare, coltivati in misura ovviamente meno efficiente rispetto all’attuale.

Questa temporanea vita vagante trova la sua espressione nel carro come mezzo di trasporto. Il carro da battaglia, impiegato dagli Indi del periodo vedico come dai Greci e dai Celti del continente come delle isole  durante gli eventi bellici, come nel culto degli eroi e nelle gare di corse che ne derivarono, è forse di origine mesopotamica e largamente diffuso tra i popoli Indoeuropei ben prima della nascita della cavalleria propriamente detta. Dalla radice indoeuropea *kers e dal verbo corrispondente *kr•sus, “correre” abbiamo il gallico kārros, l’irlandese carr ed il gallese carrog, il latino carrus ma anche curro da cui cursus, il greco επίκουρος, “epikouros”, i termini del tocario kursär e kwasär, l’altogermanico nelle forme *karruh, karrkarru e karruz oltre che horsk e l’antico norreno horskr, l’antico bassofranco karr-ā, l’ingese horse ma anche il sanscrito k•hā [1].

Nella vita dei popoli dell’età “indoeuropea” aveva già ovviamente una certa parte anche il commercio. I linguaggi attestano che si trattava esclusivamente di baratto. Come già accennato, il piccolo bestiame era il riferimento delle unità di scambio e per i beni di alto valore la moneta per eccellenza era soprattutto il bue.

Era in atto un efficace sistema di misurazione e si poteva contare almeno fino a 100 grazie all’uso di specifici vocaboli indicanti i numerali. Presumibilmente, come avviene ancora oggi presso alcune popolazioni, numeri maggiori venivano espressi attraverso espressioni composte da sequenze numerali intese come moltiplicazioni o addizioni: “due (volte) cento”, “dieci (volte) trenta” o “cento più otto”, “cento più cento più quattro” e così via. Indipendentemente dal fatto che il sistema a base non decimale che coesiste in molte lingue indoeuropee assieme al decimale sia stato influenzato o meno dal sistema numerale babilonese, tale metodo, nella forma ancora in uso ad esempio nel francese, si rivela pratico quanto l’altro: “soixante dix”, “quatre-vingt”, “quatre vingt dix”, ecc.

5.2 – Caratteristiche della società indoeuropea

Nella prima fase culturale di ogni popolo lo straniero è generalmente considerato un potenziale nemico o comunque un pericolo anche quando non agisce in maniera tale da assecondare quest’idea.

Questa situazione muta nel momento in cui si sviluppano gli scambi commerciali con i gruppi umani non appartenenti al proprio. Sorge il principio del diritto di ospitalità [2], originato anche da necessità pratiche. Matrimonio e famiglia sono in stretta connessione col lavoro domestico: l’acquisto della moglie mira soprattutto a procurarsi una forza per il lavoro domestico anche attraverso la procreazione. All’uomo spetta il compito dell’allevamento del bestiame, mentre l’agricoltura, considerata un’attività meno “nobile” e tutto il lavoro manifatturiero sono di pertinenza della donna.  

Le concordanze negli usi nuziali dei popoli Indoeuropei appaiono risalire a comuni istituzioni ancestrali. Nel caso che la primitiva forma del matrimonio sia stato il matrimonio per ratto, esso era già stato abolita come forma legale, per quanto è plausibile che talvolta fosse ancora applicata specialmente dalla casta guerriera o in casi di necessità. Dal ratto delle Sabine all’epica irlandese abbiamo ancora in epoca storica espliciti esempi del ricorso a tale pratica. Qualche particolare traccia resta negli usi nuziali, soprattutto nella resistenza e nei pianti della sposa.

Tuttavia, nella società indoeuropea la sposa veniva generalmente comprata. Esistevano determinate formule da attuare per dichiarare la volontà di contrarre matrimonio con la figlia di un uomo libero, per il fidanzamento e per le nozze. Il rito nuziale propriamente detto consisteva nel prendere la mano della sposa, simbolo probabile della presa di possesso da parte del marito. Dopo un banchetto in comune, la nuova coppia saliva sul giaciglio in presenza di testimoni, e con quest’atto il matrimonio era concluso [3].

L’organizzazione della famiglia indoeuropea si può ricostruire dai dati linguistici.

Attorno al nucleo composto dagli sposi e dalla prole di minore età coesistevano i figli ammogliati insieme ai loro figli, i genitori dello sposo non più in grado di costituire un nucleo famigliare distinto e presumibilmente i parenti non sposati di costui o quelli che avessero accettato il principio di sottomissione al capofamiglia. Si esplica in tal modo il concetto di “famiglia allargata” che si evolve ad occidente nei più recenti principi sociali legati a termini come “clan” o “gens” ad occidente e in quello di “casta” a oriente.

La costituzione è nettamente patriarcale. La supremazia illimitata del capo della famiglia corrispondeva a tale forma, che trovava la sua espressione religiosa e giuridica nel culto degli antenati e nell’obbligo della vendetta di sangue. In questo principio troviamo una delle principali differenze tra le popolazioni indoeuropee e quelle considerate preindoeuropee. Presso queste ultime si osserva un’organizzazione famigliare di tipo matrilineare. La posizione sociale della donna sembra essere ben differente e ciò che sappiamo, o deduciamo, da quanto ci è noto appare descriverla in possesso di prerogative e diritti del tutto assenti tra gli Indoeuropei. Presso costoro, ad esempio, la donna ha rapporti di parentela coi parenti del marito mentre il marito non ha legami di parentela con quelli della moglie.

Che la posizione sociale della donna non fosse molto elevata lo si può desumere dal “prezzo” della sposa. La moglie era proprietà del marito, che poteva disporne con diritto illimitato, così come per i figli. La poligamia era costume solo presso i più potenti ed i più ricchi, e si mantenne sino ai tempi storici. Di ciò abbiamo documentazione letteraria presso alcune popolazioni ancora quando presso altre era scomparsa. In ogni caso, la monogamia era la consuetudine.

Ma mentre l’adulterio da parte della donna era punito con la morte, i rapporti sessuali extraconiugali dell’uomo rientravano nelle prerogative legate al diritto di possesso nei confronti della moglie.

In pratica, la donna era punita per il tradimento non tanto per questioni morali, ma per aver violato il diritto di esclusivo possesso che il marito vantava su di essa.

Il marito poteva cacciare e ripudiare la moglie, mentre il divorzio era impossibile per la donna. Essa in linea di principio non era altro che la procreatrice dei figli e in quanto tale, era tenuta in considerazione solo se partoriva maschi. La nascita di una femmina è considerata ancor oggi in India come presso molte popolazioni indoeuropee di cultura contadina o mediterranea, quasi alla stregua di una sventura e comunque, come “un’inutile bocca da sfamare”.

Particolarmente disgraziata era la condizione della vedova. Nelle caste nobili essa accompagnava il marito nella morte. In quelle di classe media nulla le spettava dell’eredità del marito e questa passava al figlio maggiore o al parente più prossimo del marito e, in quanto vedova, le era vietato risposarsi. In alcune vaste zone dell’India odierna e nonostante la legge lo vieti esplicitamente, la vedova è ancora cacciata dalla comunità ed è tacitamente vietato fornirle aiuti e sussistenza, configurando inevitabilmente la situazione alla stregua di una condanna a morte.

Ovviamente anche l’esclusione della donna dai ruoli sociali e professionali di pertinenza maschile rivela il contrasto profondo tra i due sessi. E’ però opportuno osservare che altri indizi invece la presentano in un’altra luce e in particolar modo quelli relativi alla sua partecipazione alle pratiche sacrificali.  

In ogni caso, il padre aveva diritto illimitato anche sui figli e poteva venderli, donarli o ucciderli. L’infanticidio e l’abbandono di bambine erano fenomeni diffusi e spesso motivati, almeno nelle epoche più remote o tra le caste inferiori, dalla mancanza di cibo. Per questa ragione, nonostante tali atti siano stati rilevati tra molte delle popolazioni di origine indoeuropea tra le quali quelle elleniche, italiche, slave oltreché presso le culture mesopotamiche e del subcontinente indiano, essi non possono essere considerati in assoluto come manifestazioni esclusive della primigenia cultura indoeuropea. Valga l’osservazione che tali fenomeni si riscontrano anche presso popoli di sicura origine non indoeuropea.

Le norme giuridiche civili meno suscettibili di mutamenti sono quelle che regolano i rapporti tra la famiglia ed il suo capo. La proprietà privata è sconosciuta. Il terreno è proprietà della collettività e viene ripartito tra le singole famiglie. Tutti i beni mobili sono invece proprietà della famiglia ma ovviamente e in larga misura l’amministrazione e le decisioni in merito spettano al capofamiglia.   

I rapporti giuridici in vigore presso i primi Indoeuropei si possono solo approssimativamente ricostruire con l’ausilio di indagini comparative. Anche per essi dobbiamo presumere che tali rapporti fossero in vigore solo all’interno della singola comunità tribale, inoltre diritto e costumi appaiono tuttora indistinti. Il diritto non aveva in larga misura fondamento morale o religioso ma aveva ragione esclusivamente in quanto ordinamento tradizionale della comunità. Solo in seguito e con estrema gradualità il diritto alla difesa del gruppo viene affidato all’autorità riconosciuta dalla comunità. Questa nuova istituzione, in massima parte collegiale e costituita dagli anziani e dai maggiorenti, esercita il potere giuridico ed esecutivo solo nel caso di infrazioni contro la comunità stessa, ad esempio, in caso di tradimento o viltà. La nascita di questi istituti collegiali sembra precedere quella dell’istituzione monarchica e anche all’avvento di quest’ultima, tali organi giudicanti permangono parallelamente all’autorità regia sulla quale spesso risultano prevalenti.

In larga misura presso le popolazioni indoeuropee il re non è in possesso del diritto e del potere assoluto. Quasi sempre si tratta di una figura eletta il cui ruolo non viene ereditato dai discendenti e generalmente è controbilanciato, se non ne è dipendente, dall’autorità religiosa.

L’unica forma di pena nel caso di offesa grave nei confronti della comunità era la pena di morte, in genere eseguita subito dopo la pronuncia della sentenza, diffusamente tramite lapidazione, a meno che l’accusato non riuscisse a sfuggire alla morte varcando i confini del territorio tribale e rinunciando in tal modo ad ogni diritto.

In seguito le esecuzioni saranno influenzate dalla ritualità legata all’aspetto religioso. Si assisterà quindi alla trasformazione della semplice esecuzione in pratica sacrificale dei condannati attraverso forme di soppressione di vario genere ma in linea di massima connesse alla ritualità propria della divinità di riferimento [4].

Nei casi di offesa nei confronti della singola persona, quando attuata da parte di componenti della stessa comunità della parte lesa, spettano a quest’ultima, sia essa il diretto interessato, sia composta, in caso di omicidio, dai parenti della vittima. La vendetta “di sangue” era normale prassi ma pare che molto presto sia stata sostituita dal pagamento di un’indennità o ammenda pari ad un valore predefinito in funzione del “prezzo d’onore” stabilito per la vittima attraverso l’offerta di capi bovini o animali di vario genere come descritto ad esempio nel codice di Hammurabi.

Quello di “prezzo d’onore” è termine e relativo costume noto e ampiamente documentato ancora in epoca recente presso Celti e Slavi ed ancor più recentemente per le popolazioni germaniche.

D’altro canto, l’essere estromessi dalla vita comunitaria e perdere conseguentemente ogni diritto ed ogni tutela è il vero significato originario della pena dell’esilio. Pene restrittive della libertà come la prigionia si riscontrano solo presso i singoli popoli e nascono probabilmente dalla necessità da parte di chi le esercita di recuperare un credito trattando con i parenti di un colpevole di violazioni delle norme o delle consuetudini riguardanti i beni materiali. Si tratta quindi di tenere in ostaggio una persona il cui riscatto equivale al valore da recuperare. Quella dell’esilio, al contrario, deve essere considerata un tipo di pena estremamente precoce dal momento che forme di “esilio” sono riscontrabili anche in gruppi animali con spiccata organizzazione sociale. Sappiamo da Giulio Cesare che presso i Celti i colpevoli di reati contro la comunità erano privati di ogni diritto ed in particolare di quelli legati alla ritualità. Essi erano anche allontanati o ignorati dalla comunità e tale sentenza pesava sul colpevole come e più di una condanna a morte.

Occorre considerare che molto spesso l’essere cacciati o anche solo essere privati del diritto a tutte o alcune pratiche sociali corrispondeva alla quasi certezza di morte considerando che privati del supporto della comunità ci si poteva trovare in balia di gruppi umani ostili. Inoltre nel caso di condanna all’esilio qualunque appartenente alla comunità da cui il colpevole era stato cacciato avrebbe potuto e addirittura dovuto ucciderlo impunemente se lo avesse incontrato. Presumibilmente e abbastanza presto anche le comunità limitrofe devono aver scelto di non prestare accoglienza ai fuoriusciti, a meno che ciò non fosse risultato conveniente in relazione ad opportunità di tipo politico e bellico. Evidentemente laddove sia ritenuta  opportuna la pacifica convivenza, il rifugio fornito ad un condannato proveniente da un gruppo vicino può certamente essere considerato un pericoloso “casus belli”. Il concetto di “diritto di asilo” è decisamente più tardo e riguarda momenti della storia umana già interessati da primitive forme di ordinamento giuridico i cui basilari principi sono generalmente accettati se non condivisi.

È anche certo che si esercitasse il rituale del giuramento. In origine si trattava di una maledizione che il pronunziante scagliava contro sé stesso. Un giuramento particolarmente convincente era probabilmente quello che, espresso attraverso una particolare formula, era accompagnato da una dimostrazione pratica della sincerità attraverso la prova dell’acqua o del fuoco nel cosiddetto “giudizio di Dio” che consisteva nel sottoporsi agli effetti della fiamma o dell’immersione per un periodo sufficiente a convincere gli astanti del favore divino nei propri confronti e conseguentemente della veridicità di ciò che si affermava

Non siamo certi che vi fossero pratiche atte ad accogliere le deposizioni di testimoni, ma ciò è quantomeno plausibile. Non vi erano processi privati. Ad offese personali si opponeva la difesa personale, in casi estremi la vendetta di sangue. L’ulteriore sviluppo del diritto consiste in ciò che la comunità avoca a sé e ciò avverrà in misura sempre maggiore sino al momento in cui la giurisdizione comunitaria si sostituirà al diritto privato.

NOTE

[1] Il duhkha che negli Yoga Sutrasi generalmente viene tradotto con “dolore”, è invece una metafora che letteralmente significa “avere un cattivo asse di ruota“. Lo stesso termine che identifica ruota definisce anche il carro, Infine, in antico persiano il carro era ru-kh(a), il “carro che corre” o “veloce” e questo era il termine per definire il pezzo del chaturanga, ovvero gli scacchi, che oggi chiamiamo “torre”. I Persiani lo importarono dall’India e infine, giunto in occidente tramite gli Arabi, per assonanza il “carro” divenne “rocca”, la “torre” appunto, da cui il termine “arroccare”.

[2] Il principio “dell’ospitalità” è peraltro comune a quasi tutti i popoli dell’antichità storica. In generale deve essere connesso a quello “dell’onore”, in quanto è per questo principio, fondamentale nella cultura non solo indoeuropea, che la parola data in funzione del rispetto dell’ospite deve essere rispettatata. Di questa pratica non sono affatto scarse le notizie in ambito letterario per quanto concerne i popoli Celtici e, per quanto concerne i territori iberici, abbiamo le testimonianze materiali date dai ritrovamenti di “tessere dell”ospitalità”. Si tratta essenzialmente di oggetti in bronzo fuso, ma non mancano esempi in pietra, a forma “di mano” con incisioni di formule legate all’uso. Questi oggetti fungevano da “lasciapassare” e probabilmente erano prodotte a coppie, in modo che fosse possibile verificare che i bordi combaciassero una volta accostati lungo il lato inferiore, quello del “palmo”. E’ plausibile che esse avessero avuto diffusione in relazione alla pratica della transumanza, per la quale i pastori erano costretti ad attraversare vasti territori non controllati dalle tribu cui essi appartenevano. E’ evidente che ciò comporta, anche in fase estremamente arcaica, l’assunzione di principi giuridici connessi all’idea di “ospitalità” e “immunità” e legati al reciproco riconoscimento di diritti che vanno al di la del semplice concetto di “controllo territoriale”.

[3] Dopo la “strage dei Proci”, quando Penelope cerca conferma chiedendo ad Ulisse di portarle il “talamo nuziale”, lo pseudo Omero usa non a caso il termine “nuziale”. Quel “letto” era scavato nel tronco di un ulivo e non poteva essere spostato. Probabilmente si trattava di un “letto” utilizzato esclusivamente in funzione del cerimoniale matrimoniale, che prevedeva appunto, da parte dei coniugandi, l’atto del salirvi assieme in presenza dei testimoni o dell’intera comunità, più che di un giaciglio d’uso quotidiano attorno al quale costruire un intera abitazione.

[4] Sono numerosi i ritrovamenti in zone paludose e torbiere sia continentali che insulari di corpi mummificati di vittime sacrificali. Da essi abbiamo riscontro delle tecniche utilizzate durante la cerimonia: questi individui, di entrambi i sessi, sono stati affogati, strangolati, sgozzati, colpiti con corpi contundenti alla testa. Singolare è il fatto che frequentemente queste “tecniche” sono associate. In più di un caso la vittima, dopo aver assunto un” pasto rituale”, a volte comprendente anche sostanze psicotrope, erano storditi o uccisi da colpi al capo. In seguito sgozzati o strangolati oppure impiccati ed affondati nell’acqua. In alcuni casi si hanno evidenze di pratiche di tortura o di ingiuria, sempre che non si tratti di gesti connessi a particolari rituali, come nel caso del Vecchio di Croghan, i cui capezzoli sono stati quasi tranciati di netto.

I cadaveri venivano spesso decapitati e poi deliberatamente sepolti nella palude, utilizzando pali o grate in legno per mantenerli sommersi. Le interpretazioni dei vari esami forensi non sono sempre concordi, per cui non è ancora chiaro se siano stati uccisi e sepolti nella palude per aver commesso un reato o se invece si tratti di vittime sacrificali. Pare plausibile che le due cose fossero in qualche modo collegate. Il colpevole di un reato “sociale” era dunque sacrificato nell’ambito di rituali che dovevano manifestare il diritto della comunità associandolo alla sfera religiosa. Alcuni corpi, come quello della cosidetta Mummia di Tollund, sono stati rinvenuti con la corda usata per strangolarli ancora intorno al collo. Altri, come la Ragazza di Yde, avevano i capelli tagliati solo da una parte del capo. Queste persone sembrano costantemente appartenere alle classi superiori. Le unghie sono curate ed analisi relativi alle proteine prelevate dai capelli indicano una buona alimentazione. Strabone riporta che i Celti eseguivano divinazioni utilizzando viscere di vittime umane. In effetti su alcune mummie di palude, come ad esempio l’Uomo di Weerdinge, le viscere erano state prelevate per mezzo di incisioni. Tuttavia è anche possibile che tali lesioni non siano sempre state inflitte da altre persone, ma causate piuttosto da azioni non solo meccaniche dovute alle condizioni in cui il corpo è stato conservato. Nessuna evidenza, invece, della pratica descritta da Cesare a proposito dei “manichini di forma umana” in vimini cui veniva dato fuoco dopo avervi rinchiuso le vittime.

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[ Articolo pubblicato il 25/11/08 e scritto da “kommios” ]


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