
Per quanto riguarda la vita intellettuale e la morale degli Indoeuropei avremmo maggiori informazioni se conoscessimo in modo più preciso la loro religione ed i rituali ad essa connessi. Sfortunatamente le idee religiose e il fondo mitico sono difficili a riconoscere, poiché la corrispondenza dei nomi che è peraltro assai rara, non ci permette di affermare con certezza alcuna univocità. Laddove siano conservate le stesse rappresentazioni, è anche possibile che siano state prodotte da sviluppi particolari ed analoghi.
Tuttavia vi sono alcune concordanze che forniscono informazioni estremamente interessanti.
È infatti rilevante che accanto alle divinità proprie di uno stadio culturale primitivo, protettrici di gruppi e tribù, gli Indoeuropei venerassero principalmente un dio cosmico, il “dio del cielo”, indoeuropeo *Dyeus, greco Ζεύς, “Zeus”, latino Jupiter, da Dies-piter, germanico Ziu.
Si tratta di una figura assolutamente universale a cui è dovuta la fertilità e la cui potenza si rivela nella tempesta e in quanto creatore di tutti gli esseri è chiamato “padre”.
Questo caso, come pochi altri, mostra tuttavia che le tribù indoeuropee costituivano una comunità strettamente congiunta, in possesso di elementi spirituali omogenei ed universali.
Accanto al “Dio celeste”, come sua consorte e divinità materna, troviamo la Terra. Inoltre, retaggio dell’ancestrale sentire religioso, il culto del fuoco, cardine della spiritualità connessa alla vita domestica. Vesta protegge la casa in quanto dea del focolare. Presso gli Indiani il fuoco sacrificale è di gran lunga la più potente manifestazione divina, dinanzi alla quale nessun’altra divinità ha prevalenza.
Il Perkna dei Lituani, un dio della tempesta che diverrà il Perkunas dei tempi storici e che trova riscontro nel Perun degli Slavi e probabilmente nel Fjorgyn norreno, sembrerebbe essere di origine indoeuropea a giudicare dal nome del dio vedico della pioggia, Parjanya. Alcuni azzardano l’ipotesi che anche il Quirinus latino abbia la stessa origine, fatto linguisticamente possibile in virtù delle regole che portano il latino, come le lingue gaeliche, a mantenere la gutturale *kw rispetto alla forma labiale *pw. L’origine indoeuropea è possibile anche per la coppia divina dei Dioscuri, confrontabili con gli Acvin indiani. E pare lo stesso per i numerosi demoni connessi alle vicende della vita umana. Altre figure derivano da fenomeni naturali, come il dio del sole greco Ηέλιος, “Helios“, connesso a σείριος, “séirios“, originariamente σƒείριος, “swéirios”, “splendente”. Questo teonimo trova relazione in quello latino Sol, e nel sanscrito Sûryas, in origine *svaryas, dalla radice *svar- avente significato di “risplendere”.
Occorre ricordare che Απόλλων, “Apòllon”, e cioè, lo stesso Apollo che sarà in seguito adottato dalla religione romana, era in realtà il dio della medicina, della musica e della profezia ed è certamente una figura più tarda sebbene molti casi abbia sostituito Helios quale portatore di luce ed auriga del cocchio solare.
Inoltre, appaiono connessioni in relazione al dio lunare e alla dea dell’aurora, come nell’indiana Ushas, nella greca Εος, “Eos”, e nella latina Aurora.
Obiettivamente ben poco sappiamo in relazione alle pratiche cultuali. Quasi certamente non esistevano ancora edifici templari né rappresentazioni iconografiche, come del resto, almeno per quanto concerne i primi, è lecito attendersi in riferimento a popoli di costume seminomadico in quanto dediti alla pastorizia perlomeno alle origini.
Era comunque presente la figura sacerdotale, una sorta di mago o stregone che operava tramite scongiuri ed atti di magia o, forse, uno sciamano il cui ruolo era di intermediazione tra gli uomini e gli déi.
Il brhmana indiano, il “bramino” o “brammano”, è l’ultima manifestazione di questa antichissima figura dalla rilevante importanza sociale, essendo la continuazione del “sacerdote sacrificale” di origine indoeuropea.
5.3 – Aspetti della letteratura indoeuropea
Dal momento in cui un popolo immagina i propri déi come esseri formati individualmente, li colloca al centro di racconti mitologici e leggendari ed è certo che gli Indoeuropei avessero sviluppato tali manifestazioni culturali anche e soprattutto in forma poetica. In seguito, accanto ai racconti che si occupano delle vicende divine si formano successivamente anche miti, novelle e leggende dal contenuto puramente laico e proprio nei grandiosi poemi leggendari che trattano motivi tragici si esprime nella migliore forma lo spirito indoeuropeo.
Le forme metriche attuate nella produzione poetica delle diverse popolazioni indoeuropee sono naturalmente varie. Per cui in prima istanza sembrerebbe impossibile giungere alla ricostruzione di una forma univoca propria di un’ipotetica poesia epica e teogonica indoeuropea. Tuttavia sono state avanzate alcune teorie in merito che sembrano presentare elementi persuasivi a loro favore.
Il patrimonio letterario sulla base del quale sono state formulate le ipotesi seguenti è relativo alla lingua greca ed a quella vedica, forma più arcaica del sanscrito.
Insieme al lituano, questi idiomi ci forniscono le basi per la ricostruzione della prosodia dell’indoeuropeo, il quale sembra abbia posseduto un accento musicale assolutamente libero e non solo in relazione alle ultime tre sillabe come avviene per il greco e il latino, o nelle ultime quattro, come accade per il sanscrito della grammatica di Pāṇini. Tale accentazione è caratterizzata da tre toni: uno ascendente, o acuto, uno discendente che corrisponde al circonflesso del greco ed uno grave.
Sempre queste lingue sono in grado di fornirci indizi sul tipo di ritmo impiegato nella produzione poetica delle popolazioni parlanti le varianti diacoriche del tardo indoeuropeo flessivo, all’inizio dell’età del bronzo.
Sia la metrica del greco antico, sia quella propria del vedico fondano i loro ritmi sull’alternanza di sillabe lunghe e brevi, non sull’alternanza di sillabe accentate e non accentate. Questa tipo di metrica quantitativa è comune anche al latino classico, e l’antichissimo saturnio [5], sia gli altri metri latini, tutti in vario modo mutuati dal greco, sono quantitativi. Però la forma latina più arcaica, tipica del carme saliare e di altri testi connessi alla religiosità primordiale del mondo italico e altre lingue indoeuropee, come ad esempio il germanico, non possiede una metrica quantitativa, ma una metrica accentativa, basata cioé sull’alternanza di sillabe accentate e non accentate e caratterizzata da membri ritmici con numero di accenti fisso, numero di sillabe non accentate variabile, parallelismi, e in particolare figure di suono, allitterazioni, assonanze, consonanze, sino a vere e proprie rime.
È naturale, a questo punto, domandarsi quale dei due fenomeni rifletta più correttamente le originarie caratteristiche della poesia indoeuropea, prendendo anche in considerazione il fatto che complicare ulteriormente il quadro intervengono anche fattori di natura più astrattamente tipologica, connessi a forme di comunicazione collocate a metà strada tra l’espressione poetica e la manifestazione magico-rituale.
Ovviamente, occorre osservare che la metrica del greco e del vedico è diretta discendente del sistema tri-tonale dell’originario accento indoeuropeo, mentre la metrica del latino del VII e VI a.C. è propria dell’accento fisso sulla prima sillaba del latino arcaico che è già un’innovazione rispetto all’indeuropeo originario. Questo accento fisso sulla prima sillaba, espiratorio o dinamico, è tipico anche del germanico.
Per cui, dal momento che le metriche basate sull’accento e sul parallelismo dei membri ritmici delle frasi ritmate, detto isocolia, sono manifestazioni di una prosodia non originaria ma innovativa, vanno anch’esse considerate come non originarie, ma derivanti dall’innovazione prosodica tipica del germanico e della fase arcaica dell’italico. Ne deriva che la metrica originaria dei canti epici indeuropei tramandati oralmente doveva essere, con buona probabilità, di tipo quantitativo.
A cominciare dall’VIII-VII secolo a.C., la produzione letteraria di ambito greco manifesta una grande e ricca varietà di forme metriche.
In linea di massima, la realizzazione poetica quantitativa in versi del greco antico si esprime attraverso due tipologie. La prima è quella dei metri ionici, così detti in quanto tipici per tradizione alla poesia epica, all’elegia, al teatro, tutti generi non cantati, ma recitati.
Tale produzione è caratterizzata dall’uso del dialetto ionico e dell’attico e connessa al mondo culturale ionico, in particolare quello della Ionia Microasiatica.
All’interno del verso si presenta la possibilità di sostituizione di una sillaba lunga con due sillabe brevi e viceversa. Ciò fa sì che i versi ionici non abbiano mai lo stesso numero di sillabe e siano invece distinti per una pronunciata oscillazione sillabica, mentre quello che resta fisso è lo spazio ritmico di durata del verso.
Al contrario la metrica eolica, tipica della lirica cantata “a solo”, o melica monodica, connessa culturalmente e linguisticamente al mondo eolico, Tessaglia, Beozia, isola di Lesbo, Troade in Asia Minore, presenta elementi distintivi completamente opposti. Se i metri ionici variano per numero di sillabe, i versi eolici si distinguono per un rigoroso isosillabismo, ovvero, dall’assenza di variazioni nel numero delle sillabe.
In più, tipico della metrica eolica è l’accostamento, all’interno di ogni singolo verso o elemento ritmico, di una parte quantitativamente libera detta “base hermanniana” [6], accanto a una parte di ritmo quantitativamente definita in modo rigoroso, generalmente le due sillabe iniziali, che possono essere indifferentemente lunghe o brevi.
La produzione in metrica vedica e sanscrita è anch’essa quantitativa e ricca di forme complesse come quella greca e mostra essenzialmente versi caratterizzati da isosillabismo.
Le prime sillabe, generalmente quattro, sono quantitativamente libere, mentre la seconda parte del verso è incentrata su un ritmo estremamente rigoroso dal punto di vista quantitativo. Si tratta dello stesso fenomeno individuabile nel greco dei versi cosiddetti eolici.
Ciò che deriva da questa constatazione è che i redattori della letteratura greca di tipo eolico e i poeti epici indoarii non dovrebbero aver avuto in età storica, alcun contatto diretto, così come non è coerente ammettere acuna interazione culturale tra la Grecia e l’India precedente alla realizzazione di vie di comunicazione stabili tra il Mediterraneo e la valle dell’Indo, da parte di Medi e Persiani.
L’antichità delle Chandas [7] vediche e sanscrite rispetto alla nascita delle manifestazioni imperiali Persiana e Media suggerisce che gli aspetti tipologici condivisi dalla metrica vedica e da quella greca devono essersi originati a partire da un archetipo di versificazione originaria, che caratterizzava la lingua madre indoeuropea. Tale originaria tipologia era impostata sulla tendenza all’isosillabismo e i versi tardoindoeuropei isosillabi dovevano essere formati da una base ritmica quantitativamente libera di un numero particolare di sillabe, con buona probabilità quattro, alle quali seguiva una sequenza ritmica più rigidamente definita.
NOTE
[5] Con saturnio si indica l’unico verso della poesia latina arcaica che possa vantare radici indigene. Il nome stesso lo qualifica come “italico” e non d’importazione greca. E’ diviso in due unità ritmiche contrapposte, dette cola, separate da una pausa centrale. Il primo emistichio ( ήμιστιχιον, “hemistíkion”, “mezzo verso”, è ciascuna delle due parti in cui un verso, fattibile di ripartizione, può essere diviso da una cesura) è normalmente un dimetro giambico catalettico (Il giambo, ἰαμβος, è un tipo di “piede” adoperato nella metrica classica formato da un’arsi di una sillaba breve e di una tesi di una sillaba lunga. Conta tre more e appartiene al γένος διπλάσιον, “génos diplásion”, poiché il rapporto tra arsi e tesi è 1:2). Il secondo può essere un reiziano o un itifallico e presenta una notevole varietà di ritmi e di soluzioni. Si tratta del metro nel quale è composta l’opera più importante di Livio Andronico, l’Odusia.
[6] Johann Gottfried Jakob Hermann, filologo tedesco nato a Lipsia il 28 novembre 1772 e morto il 31 dicembre 1848. Riconosciuto capofila della scuola critico-grammatica dei cosiddetti “Filologi della parola”, o “Wortphilologen”, che indicava nella comprensione delle antiche opere letterarie lo scopo della filologia e nella ricerca linguistica il mezzo primo e indispensabile per raggiungerlo, in aperta opposizione alla corrente universale di Philipp August Böckh e dei suoi allievi tra cui Karl Otfried Müller.
Hermann è stato il fondatore di una concezione razionale della grammatica greca, che mantiene un’influenza fondamentale non solo nei confronti di una migliore immagine della grammatica in generale, ma anche in particolare per ciò che concerne le grammatiche moderne.
[7] Tra le sei parti ausiliarie del Veda, o Vedanga, vi sono la fonetica, Siksa, la metrica, Chandas, l’etimologia, Nirukta, la grammatica, Vyakarana, letteralmente “disquisizione o analisi”, i manuali d’istruzione fonetica, Pratisakhya e le liste di parole, Nighantu.
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[ Articolo pubblicato il 25/11/08 e scritto da “kommios” ]