
3.3 – Ipotesi “Anatolica” – Colin Renfrew
In tempi più recenti sono sorte teorie che collocano l’Urheimat in alcune zone dell’Anatolia e che ritengono gli Indoeuropei prevalentemente formati da gruppi di agricoltori neolitici e non già una popolazione di guerrieri nomadi. Questa ipotesi viene genericamente indicata come “di Colin Renfrew”. Coerentemente, secondo l’ipotesi avanzata da Gamkrelidze e Ivanov, la patria originaria di questi popoli sarebbe da collocarsi in territorio medio orientale tra l’Anatolia e il nord dell’area Mesopotamica.
Dunque, l’approccio al problema del britannico Renfrew rifiuta la teoria degli invasori avanzati da una Urheimat settentrionale nel corso di epiche migrazioni preistoriche e protostoriche sul volgere dell’età del bronzo.
Fondamentalmente l’obiezione mossa da Renfrew alle tradizionali ipotesi migrazioniste è che, dal punto di vista archeologico, non sono individuabili cause precise dell’ipotetica migrazione di massa in successive ondate e questa argomentazione è difficilmente aggirabile. Inoltre non esiste alcuna prova effettiva che la comparsa di un elemento della cultura materiale come l’ascia da battaglia o il bicchiere campaniforme che sono presenti nei corredi funerari in un dato territorio, sia automaticamente connesso con la diffusione di una certa popolazione e conseguentemente della lingua da essa parlata in una certa area. In modo particolare non esistono effettive evidenze archeologiche indicanti in modo inequivocabile un evento tanto violento come una repentina invasione.
In primo luogo Renfrew descrive le dinamiche attraverso le quali è possibile che si sia verificata la sostituzione della popolazione e della lingua parlata in uno specifico territorio. I fenomeni che secondo il britannico possono condurre ad un tale esito sono riconducibili a tre tipologie:
1 – Principio “dell’onda di avanzamento”
Un’innovazione tecnologica che permetta di sostentare un maggior numero di individui in un dato territorio, ad esempio, la rivoluzione dell’agricoltura, permette a una certa popolazione di espandersi lentamente, con spostamenti di qualche decina di chilometri nell’arco di decenni, sino ad all’occupazione graduale di ampie regioni sostituendosi, anche solo in ragione della propria superiorità demografica e senza sopraffazione violenta, alle popolazioni preesistenti che sono in possesso di tecniche meno efficaci in relazione all’accumulo di risorse alimentari come, ad esempio, la caccia e la raccolta. Di conseguenza, le lingue precedentemente parlate regrediscono verso aree marginali e sopravvivono solo nei luoghi nei quali la popolazione preesistente al sopraggiungere di questi popoli culturalmente più avanzati acquisisce anch’essa le nuove tecniche di sussistenza. La dinamica dell’espansione viene efficacemente descritta dal modello di reazione-diffusione.
2 – Infiltrazione per crollo di sistema.
Il decadere del sistema di controllo del territorio attuato da un centro di potere consente l’infiltrazione progressiva di popolazioni esterne così come il risollevarsi di gruppi umani sottomessi la cui lingua può giungere a prevalere; le parlate preesistenti possono creare una commistione con le lingue dei nuovi popoli ovvero mantenersi vive solo in certe aree dei territori controllati dal vecchio sistema di potere.
3 – Sovrapposizione di un’élite
Una popolazione in possesso di tecnologia superiore e particolarmente nel settore bellico si sovrappone a una gruppo preesistente, soggiogandolo e imponendo la propria lingua. Le preesistenti parlate possono essere mantenute solo in funzione di usi specifici, come quelli legati ai culti o come espressioni culturali legate alla tradizione locale o anche estinguersi lasciando come traccia degli elementi linguistici di sostrato. In casi particolari la lingua delle popolazioni sottomesse è in grado di conservare buona parte del suo patrimonio e dell’aspetto morfologico, subendo tuttavia significative alterazioni a causa della pressione delle parlate dei popoli dominanti.
È chiaro che coloro che sostengono una versione compatibile con l’ipotesi “del’invasione violenta”, tendono ad identificare il fenomeno dell’ Indoeuropeizzazione con gli eventi causati dalla sovrapposizione di un’élite. In ogni caso Renfrew sottolinea che l’unico evento significativo sul continente europeo in grado di risaltare nell’osservazione dell’analisi archeologica e certamente causa di un rimarchevolefattore di discontinuità nella preistoria dellEuropa continentale è l’avvento dell’agricoltura. Questo evento è stato definito con il termine “neolitizzazione”.
La mancanza di evidenti discontinuità nella documentazione archeologica riferita a periodi che sono seguiti alla neolitizzazione ed il contemporaneo avvento di strutture societarie di tipo agricolo, insieme alla particolarità per la quale ovunque comunità riconducibili ad una stessa cultura materiale si rivelano linguisticamente differenziate, spingono Renfrew a formulare un’ ipotesi ardita secondo la quale gli elementi culturali indoeuropei e la rivoluzione neolitica sono da considerarsi tratti comuni e contemporanei delle popolazioni che giunsero in Europa.
Dal momento che il modello della migrazione non è supportato dalla presenza di dati archeologici che mostrino plausibili cause dello spostamento di grandi masse umane, i gruppi umani considerati fin qui “invasori” non sarebbero stati un’élite militare di guerrieri dell’età del bronzo ma semplicemente dei pacifici agricoltori.
La loro crescita demografica avrebbe lentamente ma inesorabilmente sovrastato, per tramite del fenomeno di avanzamento pacifico, i precedenti abitanti dell’Europa occidentale e della valle dell’Indo.
Ciò sarebbe avvenuto intorno al 6.000 a.C e non, per mezzo successive di ondate di invasori, fra il 4.000 e il 2.000 a.C.. Una prova linguistica indiretta dell’appartenenza degli Indoeuropei al neolitico o in estrema ragione alla prima età del rame sarebbe rappresentata dal fatto che il protolessico non ha voci chiaramente ricostruite e ben identificabili per alcun metallo che non sia il rame. Anche la stessa radice per “rame” non è rilevata in tutte le lingue della famiglia ma questa in realtà appare essere prova a sostegno di un’obiezione significativa, essendo frequente in vari rami delle lingue indoeuropee. Tuttavia le parole connesse alla sfera semantica inerente alle attività agricole e a quelle riferite alla domesticazione di animali sono consolidate e comuni in tutte le lingue della famiglia, a cominciare dal cane il cui termine relativo già nel mesolitico è attestato come *kwōn per passare ai termini indicanti la mucca, *gwous, il cavallo, *ekwos, la pecora, *owis, il maiale *sūs, e persino per il principale nemico degli allevatori, il topo, *mūs.
Sempre secondo Renfrew occorre inoltre considerare che le teorie di pastori nomadi invasori giunti da nord si basano su un implicito fondamento ormai invalidato per il quale la pastorizia nomade abbia rappresentato il passaggio immediatamente precedente l’attività agricola.
L’immagine degli Indoeuropei pastori, via di mezzo tra rozzi uomini mesolitici e gli esponenti delle prime comunità di contadini sorta nell’ottocento non ha oggi più ragione di esistere. Nella consuetudine, qualsiasi comunità di pastori nomadi interagisce con comunità agricole preesistenti ma queste sembra mancassero in Europa prima della neolitizzazione.
E allora, dove si dovrebbe collocare il centro geografico dell’origine di costoro se davvero sono stati essi ad avere introdotto l’agricoltura in Europa?
Lo stesso Renfrew colloca la cosiddetta Heimweh nella regione orientale dell’Anatolia, nelle immediate vicinanze della “mezzaluna fertile”, ovvero, nel centro di diffusione della rivoluzione neolitica e della cultura materiale connessa all’agricoltura e alla domesticazione di animali e piante.
Dall’Anatolia orientale le prime comunità parlanti idiomi indoeuropei si sarebbero lentamente spostate fino al mare, interagendo in misura variabile con le popolazioni locali delle quali permane traccia nel sostrato delle lingue in seguito differenziatesi. Queste comunità avrebbero in seguito popolato l’area dell’Egeo e ancora più oltre quella balcanica e da lì si sarebbero mossi in direzione nordoccidentale.
A questa ondata di avanzamento sarebbero riuscite a resistere solo alcune comunità periferiche come quella dei Baschi i quali appresero velocemente le tecniche agricole e mantennero la propria lingua, ultimo esempio di parlata appartenente a una famiglia linguistica del mesolitico ormai del tutto estinta.
Simili fenomeni si sarebbero verificati in direzione sud-est attraversando l’altopiano iraniano, e in direzione settentrionale lungo la direttrice che conduce al bassopiano sarmatico.
Da ciò che sostiene Renfrew emerge un quadro del tutto innovativo rispetto alle precedenti teorie, le quali tuttavia sembrano resistere egregiamente in funzione delle prove archeologiche e agli indizi forniti dalla paleontologia linguistica. Tuttavia, l’archeologo britannico confuta brillantemente i dati che tali discipline portano a sostegno dell’ipotesi antagonista.
È stato fin qui osservato come in base ai modelli interpretativi dei dati archeologici proposti da Renfrew la diffusione di una cultura materiale non conduca necessariamente all’affermazione di una lingua sulle altre.
E in relazione ai dati della paleontologia linguistica, questi appaiono essere indicazioni alquanto fragili.
Un caso esemplare riguarda i termini che in molte lingue indoeuropee indicano il faggio, protoindoeuropeo *bhāghos oppure la quercia, *drūs. Tali termini appaiono talora scambiarsi di ruolo ed è il caso del greco φήγος, “phēgòs”, in opposizione al latino fāgus, ma confrontabile con il greco δρύς, “drýs”, oppure hanno un significato generico, come l’inglese tree, “albero”. Quanto queste lievi ma indicative differenze semantiche sembrano indicare è il fatto che il protoindoeuropeo possedeva un vocabolo *bhāgos che definiva una pianta d’alto fusto, ma la sua relazione con una specie di faggio europeo è del tutto aleatoria. In termini diretti, se le prove archeologiche non sono decisive, quelle connesse al vocabolario relativo alla fauna e alla flora dell’ipotetico Urheimat sono potenzialmente addirittura fuorvianti.
Oltre alla tesi della migrazione e all’ipotesi dell’invasione calcolitica proveniente da nord, Renfrew mette in discussione anche l’immagine di una società tripartita in classi di guerrieri, sacerdoti e “produttori” e con a capo un re. La cultura neolitica che si diffonde in Europa con la comparsa degli Indoeuropei sembra in realtà produrre una serie di comunità maggiormente egualitarie e poco gerarchizzate definite secondo un modello detto “chiefdom”. Sono comandate da un capo villaggio che risulta rivestire un ruolo di riferimento sociale di carattere amministrativo e cultuale, più che di capo guerriero alla testa di una classe di armati.
Questo tipo di società può mobilitare, nel caso e attraverso la collaborazione spontanea, una notevole quantità di risorse umane e materiali.
In effetti, proprio a comunità di questo genere vengono attribuite le prime monumentali strutture in pietra dell’Europa neolitica. La trasformazione di società di tipo “chiefdom” in società maggiormente gerarchizzate sembra essere invece uno sviluppo culturale successivo che ha interessato sia popolazioni stoicamente attestate di indoeuropei come di non indoeuropei.
Il modello “trifunzionale” che Dumézil ritiene essere tipicamente indoeuropeo pare infatti delinearsi, secondo Renfrew, come evoluzione tipica di ogni civiltà essendo, ad esempio, attestato per popoli certamente non Indoeuropei come turchi, mongoli, e cinesi. Detto ciò, la peculiarità di tale sistema in quanto indoeuropeo non mi pare in antitesi con le evidenze della presenza presso altre popolazioni di tale modello societario. In primo luogo per quelle popolazioni che abbiano recepito per contatto più o meno diretto con gli indoeuropei tale tipologia sociale. In seconda istanza, la stesso principio che indica come normale evoluzione il sorgere di tipologie comunitarie fortemente gerarchizzate a partire da modelli del tipo “chiefdom” comporta implicitamente l’idea che tale trasformazione sia indipendentemente possibile all’interno di qualsiasi contesto sociale a partire da un modello più semplice. Il che, dunque, non esclude affatto la possibilità che tale modello fosse caratteristico in prima istanza degli indoeuropei per ragioni culturali proprie, e qui non vedo dove stia il contrasto con ciò che osserva Dumézil, né che gli indoeuropei abbiano potuto sviluppare tale modello più precocemente rispetto ad altre culture, e qui invece, non mi pare che Renfrew sia riuscito a confutare in modo decisivo le teorie della Gimbutas a tale proposito.
A sostegno dell’ipotesi “Anatolica” sono addotte motivazioni vario tipo. Al proposito, gli studi di paleogenetica condotti da Luca Cavalli Sforza sembrano effettivamente attestare un massiccio avanzamento dal Medio Oriente in Europa, iniziato circa 8000 anni fa e corrispondente alla principale delle componenti geniche del continente europeo.
L’avanzata dei traccianti genici di nuove gruppi umani giunti dal Medio Oriente sembra coincidere con quella dell’introduzione dell’agricoltura in Europa.
In ogni caso è ulteriormente opportuno ricordare che non esiste alcuna correlazione fra dati genetici e innovazioni culturali.
I dati di Cavalli Sforza mostrano esclusivamente il coincidere della progressione demografica di un certo gruppo umano identificato da specifiche caratteristiche geniche con l’acquisizione di tecniche agricole da parte di quella stessa popolazione.
Per quanto riguarda ogni altra considerazione vale il principio di base della scienza antropologica secondo il quale il dato culturale e l’aspetto fisico sono rigorosamente distinti. Dunque ogni relazione, sia pur essa dettata da particolari evidenze, è da escludere in modo assoluto.
Se l’avanzata della tecnica agricola e quella della prima componente genica europea siano da porre in relazione all’indoeuropeizzazione è dunque la domanda successiva.
La cosa sembrerebbe abbastanza probabile, a meno che non sia considerata l’ipotesi dell’esistenza di una famiglia linguistica preindoeuropea precocemente estinta. Pare infatti che le lingue della penisola iberica preromana non fossero indoeuropee, come che non tutte fossero affini al Basco, appartenente ad una famiglia che ha lasciato impronta negli idronimi ed oronimi di tutto il territorio europeo centrale ed occidentale. Resta il fatto che il protoindoeuropeo evidenzia una salda cultura materiale neolitica attraverso l’analisi lessicale e il neolitico ha avuto inizio in Europa portato da Oriente proprio tra gli 8.000 e i 7.000 anni orsono.
Occorre anche considerare che le lingue indoeuropee parlate in Anatolia, ovvero in prossimità del presunto luogo di partenza della cultura neolitica, come il luvio, l’ittita nesico e il palaico, risultano essere state le prime a differenziarsi dall’originario ceppo linguistico. Esse infatti non sono attribuibili a nessuno dei due gruppi principali, il “kentum” e il “satem” e dunque costituirebbero un’area linguistica indipendente molto antica, verosimilmente anteriore al 5000 a.C.
Nel periodo neolitico appare già accertata la presenza di linguaggi indoeuropei in Anatolia, nell’Egeo e nei Balcani che potevano essere gli antenati della lingua protogreca trascritta in “lineare B” e decifrata da Michael Ventris.
Ma è possibile un’alternativa più stimolante e meno conflittuale rispetto all’immagine che ci perviene dai risultati dell’attività archeologica, a proposito del percorso evolutivo della civiltà elladica la quale nel suo periodo più recente, definito “tardo elladico III a-b”, manifesta una rapida evoluzione verso una società guerriera verticistica, in parte in relazione a dinamiche interne, in parte a causa dell’influenza della vicina civiltà minoica, conosciuta appunto per essere caratterizzata dalla supremazia di una classe militare presieduta da “principi” che saranno alla base dell’origine del wanax, ƒἄναξ > ἄναξ, (attestato almeno a partire dalla metà del XVII secolo a.C. nella forma “wa-na-ka”). Si tratta del re “miceneo” ben differente dal *regs indoeuropeo che ancora nel I secolo a.C. sarà presente nelle società dell’Europa centrale, occidentale e settentrionale e ben distinto anche dal βασιλεύς, “basileus”, (documentato anch’esso nel dialetto miceneo come “pa-si-re-u”) che nella gerarchia reale sembra indicare originariamente un funzionario di rango inferiore.
I territori che storicamente interessano le civiltà della Grecia restituiscono una notevole quantità di toponimi ed etnoimi che sembrano appartenere a uno strato pregreco, come quelli in -nthos e -(s)sos, di cui i secondi certamente si sono diffusi a partire dall’isola di Creta. Inoltre in greco sono numerosi i prestiti da lingue indoeuropee non greche.
Potrebbe non essere del tutto impossibile l’ipotesi che questi possano risalire a una o più parlate indoeuropee precedenti quelle greche, affini alle lingue anatoliche. Ad esempio, secondo Georgiev, la stessa lingua espressa attraverso la scrittura minoica detta “lineare A” e solo parzialmente decifrata sarebbe una lingua anatolica. Tuttavia questa è una teoria estremamente discussa e rifiutata da molti.
Il nome stesso di Creta, attestato in fonti antiche di altre civiltà come, ad esempio, “keftiw” in lingua egizia, “kaptara” in accadico e “kaphtor” nell’ebraico del “Tanakh”, sembra prossimo alla radice protoindoeuropea *ker, *kr connessa al concetto di “testa”, “capo” e probabilmente “capitale”, nel senso di “città a capo” e mostra un trattamento delle consonanti almeno apparentemente simile a quello delle lingue anatoliche.
Parole greche come πίργος “pyrgos” e τάμιας, ”tamias”, “torre“, sembrano autorizzare l’ipotesi dell’interazione con una lingua di sostrato appartenente un’area linguistica indoeuropea indipendente sebbene prossima a quella composta dai dialetti anatolici.
In tal caso si configurerebbe una situazione molto particolare per il gruppo anatolico della grande famiglia indoeuropea. Si sarebbe diffusa sin dal neolitico nei Balcani e in Anatolia, dove avrebbe potuto coesistere con le progenitrici delle lingue caucasiche tra cui lo stesso proto-hattico. Sarebbe stata più tardi soppiantata dal greco “miceneo” e da altre famiglie linguistiche indoeuropee, proseguendo la propria evoluzione nella lingua dei Lidii e dei Cari, ed infine regredire sino alla completa estinzione causata dell’avanzata del frigio, del persiano antico e del greco. È bene osservare che attualmente in Anatolia è parlato il turco, lingua del gruppo uralo-altaico.
Per altro verso la teoria di Renfrew manifesta una serie di incongruenze. A cominciare dal dato di fatto che la componente genica diffusasi in Europa da sud est durante il periodo neolitico, la III, appare molto forte nei Balcani, ma degrada regolarmente in direzione ovest dove prevale invece la V componente genica, probabilmente da mettere in relazione con la presenza di una popolazione mesolitica parlante dialetti affini al basco.
Da ciò appare chiaro che l’ipotesi di un’onda di avanzamento neolitica è valida per l’area balcanica ma non è in grado di spiegare la situazione del resto del continente europeo. Proprio nell’area balcanica Diakonov ha successivamente collocato l’Uhreimat, influenzando negli ultimi anni le posizioni dello stesso Renfrew.
Un altro problema è sorto dallo studio delle tavolette ittite, le quali oltre all’ittita nesico, lingua indoeuropea, mostrano l’uso un’altro idioma che viene definito proto-hattico. Si tratta di una lingua non indoeuropea che sembra esprimersi nel ruolo liturgico o comunque connesso alla redazione di formule rituali.
Dall’analisi dei testi contenuti nei documenti ittiti il rapporto fra lingua ittita e proto-hattica appare molto simile a quello rilevato tra il sumero e l’accadico, entrambi e contemporaneamente utilizzati nei documenti dell’impero di Sargon di Akkad.
Ecco un chiaro esempio nel quale accanto alla lingua politico amministrativa del popolo invasore si conserva l’uso della precedente, usata in funzione di lingua liturgica o rituale.
Inoltre seguendo l’onda di avanzamento neolitica in direzione sud est, cioè verso l’India, si deve ammettere la presenza indoeuropea nell’altopiano iranico e nella valle dell’Indo già in epoca neolitica.
In un primo tempo Renfrew aveva addirittura affermato che la cosidetta “cultura di Harappa” o “Vallinda” dovesse ritenersi indoeuropea, retrodatando oltremodo la tradizione orale alla base dei più antichi inni vedici. La civiltà di Harappa è al centro di notevole attenzione anche a causa del fatto che la sua scrittura non è ancora stata decifrata. In ogni caso, questa ipotesi incontra però forti resistenze da parte della maggior parte dell’ambiente scientifico. Renfrew ha esso stesso rielaborato la sua teoria in merito all’espansione verso est articolandola secondo due opzioni. L’ipotesi “A” suppone l’espansione neolitica in tutte le direzioni, India compresa mentre l’ipotesi “B” teorizza un’espansione neolitica in direzione dell’Europa per mezzo di una pacifica onda di avanzamento, ed una più tarda e violenta, verso l’India.
In relazione agli sviluppi delle ipotesi “A” e “B” che riguardano quindi essenzialmente l’India, Renfrew in un primo momento propone che le popolazioni della pianura indogangetica abbiano reagito all’infiltrazione delle popolazioni neolitiche così come avvenuto in Europa.
Questo è anche il motivo che lo induce ad affermare che la civiltà di Harappa fosse indoeuropea.
Tuttavia, in seguito all’interpretazione di dati archeologici relativi a popolazioni nomadi della pianura sarmatica arriva a formulare una teoria alternativa. Sembra infatti che nella pianura sarmatica il nomadismo si sia manifestato seguendo una direttrice sviluppatasi da ovest verso est.
Per cui il ramo indoiranico dei popoli indoeuropei potrebbe essersi mosso da sedi poste nel bassopiano sarmatico per mezzo di un’espansione in parte violenta in un periodo molto più tardo rispetto a quello dell’onda di avanzamento neolitica che introdusse l’agricoltura nel continente europeo.
Per cui gli Indoeuropei sarebbero penetrati in India a seguito del crollo della civiltà di Harappa e ciò porta Renfrew a rivedere la sua teoria in funzione di una più tradizionale visione deli fatti.
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[ Articolo pubblicato il 25/11/08 e scritto da “kommios” ]
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