Indoeuropeo: 1 – Dalla lingua ai popoli / II parte

[pagina precedente]

Il caso del tocario è significativo. Agli inizi del XX secolo si era giunti alla constatazione di una certa validità nella suddivisione delle lingue indoeuropee in occidentali ed orientali attraverso la creazione di una linea di frontiera linguistica nota come isoglossa centum-satem[5]. La scoperta del tocario, lingua centum, in territori dell’Asia orientale, ha reso incerta questa precedente divisione e per tale ragione alcuni ipotizzano che il tocario sia nato in zone occidentali, emigrando in seguito verso le sedi storiche.

Ciò conferma quanto sia improprio considerare il linguaggio come costituito da elementi stabili, incorruttibili, e rigidamente rinchiusi in virtuali linee di confine. Queste “linee” sono costruzioni artificiali” che non tengono in considerazione, per opportunità comprensibili all’interno del sistema simbolico necessario alla comprensione comune, degli innumerevoli fattori di contaminazione, sovrapposizione e convivenza degli elementi culturali tra popoli distinti ma in contatto tra loro.

L’uso dei termini “lingua”, “dialetto”, “parlata” e “idioma“, mi porta ad un’ulteriore precisazione: l’annosa discussione riguardante la differenza tra “lingua” e “dialetto” non ha oggi, come già in realtà nel passato, alcun valore se non strumentale. L’utilizzo di termini differenti in chiave chiaramente “qualitativa” per definire linguaggi stabilendo una dipendenza gli uni dagli altri rispondeva in passato ad esigenze inconsistenti dal punto di vita della logica. La continuazione nell’utilizzo di tali termini vale esclusivamente nel caso sia necessario, e solo per comodità, stabilire confini netti e facilmente comprensibili tra differenti parlate nell’ambito di un confronto nel quale risulti efficace, all’interno di un particolare contesto dialettico, determinare priorità di comunanza tra forme di linguaggio.

Ad esempio, quando si parla di “greco” o di “latino”, ciò avviene sulla base di convenzioni nate dalla constatazione dell’esistenza di un patrimonio letterario tale per cui “mediamente” siano ricostruibili meccanismi sintattici e grammaticali e patrimoni lessicali che in generale possano essere assunti come caratteristici della lingua dei popoli interessati.

Nella realtà dei fatti storici, non esiste un “greco” o un “latino”. Esistono “parlate greche” e “parlate latine”. Il concetto di “koiné” (κοινε, unione“, “comunanza“) [6] linguistica va dunque applicato in ogni caso. In nessuna situazione, in nessuna area geografica ed in nessun periodo storico, compreso quello che ci appartiene, la totalità della popolazione alla quale è attribuita una lingua specifica ha mai mostrato una completa identità nell’uso e nell’applicazione delle regole che convenzionalmente sono attribuite a tale lingua.

Il principio è valido ancora ai nostri tempi, ancora più che in passato o perlomeno in misura simile al ruolo che la diffusione del latino giocò nei territori dell’impero romano, nel caso dell’incedere della lingua inglese e della sua influenza nei confronti degli idiomi locali di tutto il mondo (ad essere precisi, oggi dovremmo fare riferimento all’american english o ancor meglio, a ciò che deriva dall’uso improprio e scorretto che ne viene fatto all’interno delle lingue che ne subiscono interferenze). La differenza rispetto al passato è fondamentalmente insita nel fatto che in epoca moderna sono sorte istituzioni “nazionali” (ma sarebbe più corretto definirle “statali”) con il compito specifico di stabilire in maniera assoluta ogni singolo aspetto riconducibile ad una lingua che diviene “ufficiale” per convenzione, oltre che di conservarne la “correttezza” e la coerenza nell’applicazione verbale o scritta.

Allo stesso modo per le lingue antiche si è intervenuto “statisticamente” con il risultato di ottenere, da un lato, un patrimonio di riferimenti atti alla comprensione ed allo studio dei reperti e dei documenti che ci pervengono, dall’altro, di creare l’idea in fondo abbastanza scorretta che “tutti i greci” parlassero “lo stesso greco” e tutti i popoli dei territori sottomessi all’amministrazione di Roma parlassero “lo stesso latino”, cosa non vera in un caso come nell’altro. Senza scendere nei casi relativi a linguaggi meno noti, anche l’osservazione del patrimonio letterario o epigrafico del “greco” e del “latino” mostra quante peculiarità ed eccezioni risultino a seconda dell’area geografica anche in epoche coincidenti, come ovviamente in riferimento a differenti periodi storici anche tra loro vicini e persino in funzione degli autori sebbene contemporanei.

È giusto ricordare che la specializzazione di quanti si occupano dello studio degli autori riferiti ad una di queste antiche lingue è spesso indirizzata all’approfondimento di uno solo di questi o, al massimo, di quanti mostrino, particolarmente nella comunanza del periodo storico, una sufficiente similitudine nell’uso degli aspetti morfologici come di quelli lessicali.

Capovolgendo il ragionamento relativo ai metodi attraverso i quali si è giunti alla ricostruzione artificiale di una “lingua comune”, occorre ragionare riguardo ai termini in base ai quali possiamo dedurre l’esistenza di un popolo primitivo associato a questa lingua a cominciare dalla constatazione della “necessità” che sia esistita una lingua primitiva comune.

Intanto, un linguaggio che presenti tale unità e coesione può esistere solo ed esclusivamente sulla base di una lunga comunanza storica di coloro che la parlavano. L’esperienza di quanti scientificamente si occupano dello studio dei meccanismi che regolano i fenomeni legati all’evoluzione dei linguaggi umani porta alla considerazione che, a differenza di fattori fisici quali il colore della pelle, degli occhi, dei capelli o addirittura la forma del cranio o la morfologia ossea in generale, i cambiamenti e le trasformazioni in ambito linguistico sono, solo apparentemente in maniera considerata paradossale, di gran lunga meno repentine.

Se è vero che in ambito urbano l’affermazione o la sovrapposizione di un nuovo linguaggio al precedente può avvenire in linea di massima nell’arco di tre o quattro generazioni, se si fa riferimento a condizioni culturali differenti rispetto alle attuali nelle quali i moderni mezzi di comunicazione svolgono un ruolo decisivo e fondamentale, in ambito rurale questa mutazione è estremamente lunga e tale da riguardare periodi calcolabili nell’arco di svariati secoli, sempre che ciò avvenga realmente. Un caso ormai noto è quello della lingua basca, sopravissuta ed evolutasi in maniera pressoché autonoma rispetto alle notevoli ingerenze del celtiberico prima, del latino in seguito e delle lingue neoromanze appartenenti al patrimonio linguistico della Spagna sino ad oggi, ammesso oltretutto che l’antica lingua iberica sia in una qualche relazione con la parlata degli attuali abitanti i territori che si affacciano sul golfo di Biscaglia.

L’evidenza di quanto appena detto è osservabile, ad esempio, anche all’interno delle stesse lingue attualmente parlate nella stragrande maggioranza del territorio europeo.

L’uso del latino si è affermato come lingua “franca” soprattutto nei centri urbani e nelle documentazioni ufficiali, in particolare per quanto concerne la produzione scritta collegata alle attività giuridiche e religiose.

Invece nelle campagne, e quindi nella maggior parte dei territori, si sono mantenute le parlate preesistenti per molto tempo ancora dopo l’eventuale occupazione romana e da ciò si sono poi generate quelle lingue che oggi accomuniamo nel gruppo detto “neoromanzo” con tutto l’universo di varianti spesso erroneamente e semplicisticamente considerati “dialetti”. Lingue chiaramente distinguibili tra loro sebbene accomunate da un’impronta comune generata dall’avvento e dalla diffusione del latino da cui hanno avuto sostanzialmente origine. Queste differenze sono però dettate in gran parte dalla maggiore o minore consistenza del sostrato rappresentato dal precedente idioma, conservatosi in misura differente a seconda delle aree geografiche e degli eventi storici che loro competono. Paragonando, per fare un ultimo esempio, il francese al romeno, appare il primo aver mantenuto del gallico continentale, ormai estinto da tempo, molto più di quanto il secondo abbia mantenuto dell’illirico o dell’idioma dacico configurandosi, similmente alla lingua sarda, come un’evoluzione abbastanza “prevedibile” del latino “volgare” comunemente parlato e diffuso dagli appartenenti alle legioni di Roma in quei luoghi stanziati e tutto ciò nonostante una notevole pressione delle lingue slave parlate nelle regioni che soprattutto ad est e a nordest hanno storicamente circondato il territorio dell’antica Dacia almeno a partire dalla fine del VI secolo d.C..

E’ giusto osservare che non sono stati pochi gli studiosi che abbiano ritenuto vano, e in qualche caso persino ingiustificato, il tentativo di risalire alle origini della cultura indoeuropea. Fondamentalmente costoro hanno sostenuto la vanità di una ricerca attraverso lo studio del patrimonio lessicale comune arrivando a dichiarare che gli sforzi intrapresi nella ricostruzione di un’originaria lingua indoeuropea non può essere altro che una “mitologia scientifica”. E’ anche giusto ricordare che le vicende del gruppo umano di cui parliamo, insieme compatto di popoli, si perde nelle nebbie di un lontano passato e che ciò che si ricostruisce della loro lingua deve essere scientificamente collocato nell’ambito di uno stato puramente ipotetico sebbene ampiamente plausibile. Resta però il fatto che tra i vari popoli ricondotti sotto la denominazione di “Indoeuropei” è possibile riconoscere, fin dal primo momento in cui essi si presentano sulla scena storica, un certo e consistente patrimonio materiale e spirituale le cui basi devono esser state poste sin dall’età preistorica. In tal senso è certamente ammissibile il tentativo di una filologia “indoeuropea” purché non si perda mai di vista che per molte ipotesi è solo possibile accostarsi ad una relativa certezza, non raggiungerla.

Quanto all’attività che riguarda il settore archeologico, da essa potrà giungere ogni sorta di dato. Occorrerà ovviamente tener conto dei risultati di questa disciplina e confrontarli con quanto dedotto dalla sistematica attività filologica. Come al solito, comunque, l’attribuzione di qualsivoglia reperto ad un gruppo umano appartenente a questa sino ad ora teorica originaria famiglia culturale dovrà sempre essere sottoposta alla elaborazione dei metodi di pertinenza delle differenti e molteplici discipline, oltre a quella linguistica, che permettono la corretta collocazione storica e culturale degli elementi in gioco.

Fatte tali considerazioni, la continuità di un’identità culturale con conseguente sviluppo di una lingua “comune” deve aver ricoperto un periodo estremamente lungo, anche secondo il metro della storia dell’uomo. Il considerare necessaria l’esistenza di una comune lingua protoindoeuropea ci porta di conseguenza ad ammettere la realtà di un gruppo umano preistorico talmente omogeneo dal punto di vista culturale che deve necessariamente essere considerato particolare e distinto. Com’è chiaro, anche anteriormente alla divisione storica dei popoli migratori, differenze culturali di minore entità potevano già essere presenti. Anche per quanto concerne il linguaggio, forme “dialettali” probabilmente dovevano caratterizzare gruppi stanziati in aree geografiche differenti ma non necessariamente distanti. D’altronde il concetto di sovrapposizione al sostrato linguistico preesistente non è compatibile con quello di soluzione di continuità del processo. Per cui gruppi umani parlanti dialetti ben poco differenziati del protoindoeuropeo, venendo in contatto con popolazioni preesistenti, hanno in maniera differenziata mantenuto caratteri linguistici non propri assorbendoli ed integrandoli nelle proprie parlate così come all’estremo è certamente accaduto lo stesso fenomeno in senso contrario. Anche ciò ha contribuito alla differenziazione delle lingue che vanno sotto la definizione di “indoeuropee” e non è affatto casuale che esse mostrino percorsi evolutivi autonomi e distinti tra loro.

La constatazione di una parentela linguistica non consente affatto di trarre conclusioni relativamente ad una comune origine o ancor più ad un’affinità razziale. Chiamando “Indoeuropei” popoli che oggi parlano lingue affini ci riferiamo ad una connessione linguistica e storica, non ad un’unità di “razza”. Ferma restando la felice frase di Albert Einstein, per il quale, giustamente dal punto di vista morale ma anche correttamente da quello più rigidamente biologico, l’unica razza a cui appartiene l’uomo non può essere che quella “umana”, la parola “razza” designa correntemente ma impropriamente una comunanza naturale determinata da caratteristiche fisiche ben precise, biologicamente poco importanti sebbene tra le più evidenti. Le categorizzazioni del passato tra “leucodermi”, “bianchi“, “melanodermi”, “neri“, “xantodermi”, “gialli” e così via, oggi non hanno valore scientifico alcuno. L’uso del termine rimane in uso a proposito di animali della stessa specie aventi caratteri morfologici, fisiologici ed anche genetici differenti da tutti gli altri esemplari della stessa specie.

Non esiste quindi una “razza indoeuropea” [7], ma solo diversi popoli parlanti idiomi affini che classifichiamo “indo-europei” in quanto rilevabili in territori compresi tra il territorio del sub continente indiano e quello delle estreme propaggini occidentali e settentrionali del continente europeo e che non certo casualmente manifestano similitudini chiare e ineccepibili anche riguardo ad altri aspetti dei corrispettivi patrimoni culturali.

In effetti, ulteriori elementi che concorrono al sostegno dell’ipotesi relativa all’esistenza di questo primordiale popolo sono evidenziati dalle discipline che interessano l’etnologia e l’archeologia.

La comparsa più o meno repentina di tecniche e tecnologie, usi e costumanze in territori che non le conoscevano in precedenza, l’introduzione di fattori culturali particolari che si sovrappongono o affiancano i precedenti non ultimi quelli di tipo cultuale sono segni evidenti dei cambiamenti che in più di un’occasione è possibile con certezza mettere in relazione con la comparsa, in una specifica area geografica, di una parlata riconoscibile come appartenente al gruppo indoeuropeo.

Quando, ad esempio, un particolare e caratteristico aspetto culturale si riscontra presso gli Arii dell’Asia e contemporaneamente presso le popolazioni dell’Europa occidentale, gruppi umani estremamente distanti gli uni dagli altri dal punto di vista geografico, è lecito ritenere più che probabile l’appartenenza di questi ad una remota famiglia culturale comune per quanto possa essersi conservato solo presso gli uni ciò che gli altri, a causa di condizioni ambientali diverse come di un differente sviluppo storico, è stato trasformato ma quasi mai del tutto abbandonato o dimenticato. In questo caso lo studio degli aspetti culturali non linguistici rappresenta uno strumento di grande interesse e, in particolare, l’aspetto relativo all’analisi dei miti e delle leggende che ogni popolo crea e sviluppa attorno alla propria identità, siano essi espressi attraverso sistemi comunicativi di diretta comprensione, sia, come più frequentemente accade, narrati tramite un linguaggio metaforico oggi difficilmente comprensibile da chi non sia in possesso delle adeguate chiavi interpretative.

NOTE

[3] Il termine tocario è stato scelto in quanto le popolazioni che parlavano queste lingue sono state identificate, probabilmente a torto, con i Τοχαροι, “Tocharoi”, menzionati da Strabone nella “Geografia” e da Tolomeo, VI, 11, 6. Altri sostengono che potrebbe invece trattarsi dei “…Σάκα ασιάτες Σκύθες…”, i “Saci, Sciti asiatici”, popolo iranico o anche dei “Thaguri”, entrambi citati dallo stesso Strabone. In seguito anche in altre città, tra cui Kucha, è stato ritrovato materiale scritto in una variante della stessa lingua. Esistono quindi due tipologie di tocario, definite oggi come tocario A , tocario orientale o agneano e tocario B, tocario occidentale o cuceo.

[4] Con il termine di isoglossa, dal greco ἴσος, “uguale” e γλῶσσα lingua” si definisce una linea che tracciata su una carta geografica delimita una porzione di territorio avente un tratto linguistico comune, sia esso lessicale, fonetico, e in questo caso è utilizzato anche il termine specifico isofona, sintattico o morfologico. Nell’ambito della linguistica si definisce per estensione in tal modo anche il tratto linguistico comune alla popolazione inclusa nell’area definita.

[5] L’isoglossa centumsatem stabilisce dal punto di vista geografico l’evoluzione delle tre serie di dorsali ricostruite per il protoindoeuropeo*kw*gw e *gwh, le occlusive labiovelari*k*g e *gh, le occlusive velari, e *ḱ e *ǵh, le occlusive palatoalveolari nelle lingue discendenti. Una suddivisione in lingue “centum” e “satem” assume valore esclusivamente attraverso il confronto della lingua madre con il completo inventario di dorsali derivate. Successive mutazioni fonetiche in un ramo particolare, come la palatalizzazione della k in latino in s in alcune lingue romanze o la fusione di *kw con *k nelle lingue goideliche, non sono tenute in considerazione per ciò che riguarda la classificazione.

Il nome centum deriva dalla parola latina centum, indicante il numero “100”, *ḱṃtóm, che presenta la fusione di *k e *ḱ, confrontabile con il sanscrito śata– o il russo sto, dove *ḱ è cambiata in fricativa. Altri esempi di lingue centum sono: hund(red) in inglese e hundertin tedesco, con h da una precedente *k come proprio della rotazione consonantica caratteristica delle lingue germaniche, il greco (ὲ)κατόν “(he)katon”, il gallese cant, tra i vari. La parola albanese qind è un prestito dal latino centum. Il termine satem è il vocabolo corrispondente nelle lingue che a questo gruppo appartengono.

Nelle lingue centum le consonanti palatovelari si sono fuse con le velari *k*g*gh.

La maggior parte delle lingue centum preserva le labiovelari proto-indoeuropee *kw*gw*gwh o i riflessi linguistici storici che hanno dato in seguito esiti distinti dalle velari. Ad esempio, *k , *kw > latino c , k. Oppure qu, kwκ > πp in greco e nelle lingue goideliche o τt prima delle vocali iniziali. Infine h > hw in gotico, ecc.

Le lingue satem presentano il caratteristico cambiamento delle palatoalveolari protoindoeuropee *ḱ e *ǵh in consonanti affricate e fricative, articolate nello spazio anteriore della bocca. Ad esempio *ḱ mutano in ś nel sanscrito, s in lettone, avestico, russo ed armeno, šin lituano, e th nell’ albanese. Contemporaneamente le velari *k*g*gh e le labiovelari *kw*gw*gwh originali si sono fuse insieme in un solo esito velare, cioè le labiovelari hanno perduto l’arrotondamento labiale.

[6] Il greco ellenistico o ΚοινὴἙλληνική, “koiné Elleniké“, traducibile più o meno come, “lingua comune dei Greci”, è un antico dialetto greco che rappresenta la terza tappa nella storia della lingua greca. Altri nomi della lingua sono “alessandrina”, “comune” o “greco del nuovo Testamento”.

Nell’uso moderno il termine è passato ad indicare la lingua ellenistica, ovvero, quel modello linguistico che si impose come lingua comune del mondo greco nei primi secoli dell’epoca che si può approssimativamente chiamare postclassica e il cui inizio viene convenzionalmente fatto risalire alla battaglia di Cheronea del 338 a.C. Nell’accezione moderna, l’uso del termine non è limitato all’indicazione di una varietà colta della lingua comune, ma si estende a tutte le sue stratificazioni. Nella “koinè” sono incluse la lingua letteraria, quella burocratica, le tendenze atticistiche, ma anche la lingua parlata. Infine, in senso lato, il termine koinè identifica qualsiasi linguaggio condiviso da culture e popoli diversi, originario o predominante sulle varie lingue e forme dialettali di un’area più o meno estesa.

[7] Nelle specie naturali il termine razza è sempre meno accettato, in modo particolare quando la specie è diffusa nel territorio senza soluzione di continuità. Nella sua accezione scientifica e moderna non è applicabile ad una specie geneticamente omogenea come quella umana.

Gli studi genetici hanno infatti dimostrato la distribuzione clinale dei caratteri nel pianeta e la assenza di veri e propri confini biologici. Perciò il termine razza è praticamente scomparso dalla terminologia scientifica sia in antropologia biologica che in genetica umana. Quelle che in passato erano comunemente definite “razze“, come la bianca, la negra o asiatica, sono oggi definite “tipi umani“.

[ Articolo pubblicato il 25/11/08 e scritto da “kommios” ]

One thought on “Indoeuropeo: 1 – Dalla lingua ai popoli / II parte

Rispondi