Un piccolo omaggio ad Aneurin, il bardo del VI secolo.

Aneurin (o Aneirin), figlio di Caw (capo degli Ottadini, e lord di Cwm Cawlwyd), fratello di Gildas il Sapiente, visse nel secolo VI d.C. in Gran Bretagna, molto probabilmente come poeta di corte a Edimburgo.
La sua fama fu nutrita attraverso una spiccata, eccellente capacità di comporre canti rievocatori in ricordo di eroi e gesta illustri, e gli fruttò il titolo onorifico di Pennbard, Bardo Supremo.
Nennio lo cita come uno dei primi poeti gallesi (Cynfeirdd), contemporaneo di Taliesin, Bluchbardd e Cian; è inoltre presente nel Poets of the Princes (Beirdd y Tywysogion). Nei Welsh Triads è conosciuto come Principe dei Bardi, o Bardo dal Verso Fluente.
Le sue opere ci sono giunte attraverso un manoscritto del tardo 13° secolo, il Libro di Aneurin (or Llyfr Aneirin), in cui traspare una visione del mondo ancora misterica, dove la magia e gli incantesimi permeano la poesia di fitto, crepuscolare mistero.
Nell’Ode per Owein, figlio di March, Aneurin dipinge la figura perfetta di un giovane eroe, attraverso la minuta descrizione del corpo, forte e vigoroso, e del suo portamento, elegante e possente. Ogni particolare è pregno di solennità e di fermo dolore per il lutto della sua perdita; le immagini rievocate attingono all’antico splendore da un lato e al lugubre destino della carne dall’altro, in una dissonanza assordante. La totalità del poema forza a respirare in lunghe pause, induce alla contemplazione rassegnata della vacuità del transito umano, alla preghiera, ad un rispettoso silenzio. “la sua spada grande e bluastra splendeva, mentre gli speroni d’oro brillavano”.
Negli Incanti di Adebon un’atmosfera di magia e sortilegio vela volutamente il significato profondo delle strofe. La voce cammina lentamente fra i versi, come sospesa in una voluttà senza tempo, in un dormiveglia dolce d’incanto o ammaliamento. Molto traspare, seppur leggermente, fra le sillabe fuse in armonie musicali impalpabili ma profondamente tangibili, lasciando intravedere una saggezza antica, semplice e forte di metafore. Molto resta celato, cripticamente. Il poema termina, all’improvviso, prima che la voce possa rendersene conto. Lascia un amaro fra le labbra orfane di parole. Ed è un amaro antico, gravido di domande e aspettative sempiterne. “La mela non cade lontano dall’albero”.
Nell’Ode a Tudwilch la pace della natura e dell’uomo è invasa da un’atmosfera feroce di battaglia, che si avvicina a lunghi passi, con voce tumultuosa. Riemerge così il ricordo dei caduti, già immolati nei combattimenti consumati, in particolare la memoria di Tudwilch, amante della vita, dell’amore e dell’allevamento, il quale traspare in tutta la sua duplice natura, di uomo, pacifico, solare, e di combattente, feroce, fiero. La chiamata alla battaglia è velata da una triste rassegnazione, che fa dissanguare le querce, come antico, sinistro presagio. “Che le armi si levino, che i ranghi si formino, non senti forse il tumulto della lotta che già si appressa?”.
Nell’Ode a Eidol si dipinge ancora una volta la ferocia crudele della battaglia, che nella sua natura crudele priva gli uomini dei loro compagni migliori, priva le famiglie mutilate di mariti, figli, di padri e priva la comunità minacciata di condottieri degni di lode e onore, come Eidol, noto per la sua vitalità e dignità, per la sua infinita ospitalità. E triste è il bilancio, sull’ultimo chiudersi del giorno, perché uno solo su sessanta uomini è potuto tornare alla propria casa. “Tra gli invitati al banchetto ove scorrono vino e idromele, è bagnata di lacrime, lo so, la madre di Eidol delle Pianure”.
Per i testi integrali consultare Poemi e ballate celtiche, 1996, Keltia Editrice, Aosta
[ Articolo pubblicato il 03/08/06 e scritto da “Frina” ]