Dante Alighieri e John R. R. Tolkien: due epoche, due mondi, due culture all’apparenza diversissimi e fra cui non sembra esistere nessuna affinità, tranne il fatto che l’uno e l’altro hanno rappresentato due vette, due vertici di altissimo livello nella letteratura dell’Europa. In un certo senso, tutto ci spinge a pensarli come contrapposti, a cominciare dal fatto che uno dei due lo si conosce sui banchi di scuola (con tutto ciò che implica un apprendimento scolastico che sembra concepito apposta per rendere noioso tutto quanto pretende di insegnare, anche se poi a volte succede che si riscoprano nell’età matura cose che avevamo imparato a detestare nell’adolescenza quando ci venivano ammannite dalla cattedra), mentre l’altro si associa a una dimensione prima di tutto ludica, al piacere di leggere, ma anche di vedere un film o prendere parte a un gioco di ruolo.

Dante Alighieri ha un aspetto “celtico” che i critici della letteratura si sono sforzati di ignorare. A volte sospetto che se fosse vissuto nella nostra epoca, sarebbe stato considerato una figura di primo piano del “Celtic Revival”. Tanto per cominciare, se si prende in mano la Divina Commedia senza paraocchi, ci si rende facilmente conto di una cosa: Dante conosceva molto bene i poemi del Ciclo Bretone e ne era probabilmente un lettore appassionato; sicuramente questi ultimi sono stati una fonte d’ispirazione non di secondo piano della Commedia.
Credo che tutti ricorderanno uno degli episodi più toccanti del poema dantesco, quello di Paolo e Francesca. Come è piuttosto noto, in esso la molla che determina l’innamoramento (o meglio, la confessione del reciproco sentimento) dei due, è la lettura della storia d’amore di Lancillotto e Ginevra. “Galeotto fu il libro e chi lo scrisse”. “Galeotto” ossia Galhaut, è lo scudiero che fa da complice alla relazione adulterina fra la regina e il cavaliere.

Di più, l’intero episodio è modellato sulla narrazione della vicenda arturiana: Paolo Malatesta aveva rappresentato il (molto meno avvenente) fratello Gianciotto nel matrimonio per procura con Francesca da Rimini, con un chiaro parallelismo con la vicenda di Lancillotto inviato da Artù a prelevare Ginevra dalla casa paterna. In entrambe le narrazioni si evidenzia il conflitto fra l’amore e i sentimenti di fedeltà e di onore, anche se Gianciotto Malatesta non è certo Artù.
Forse meno noto è un altro episodio della Divina Commedia nel quale Dante rievoca la tragica conclusione della vicenda arturiana, lo scontro finale tra Artù e Mordred, il figlio incestuoso che questi ha avuto dalla sorellastra Morgana. In questo scontro, come è noto, Artù uccide Mordred e ne viene a sua volta ferito mortalmente. In esso, Dante raccoglie una tradizione secondo la quale Excalibur si sarebbe infissa nel corpo di Mordred in maniera tanto devastante, vi avrebbe aperto uno squarcio così ampio che un raggio di luce l’avrebbe attraversato sì che la stessa ombra del figlio ribelle ne sarebbe stata trafitta.
Questo episodio, come molti altri della Divina Commedia si presta a una lettura simbolica su cui si sono esercitati i non molti critici che hanno prestato attenzione a questo particolare aspetto di Dante: la luce che trafigge l’ombra significherebbe la regalità legittima, la regalità sacrale che annienta la sua tragica caricatura, il bruto potere dittatoriale basato unicamente sulla forza.
E qui salta subito all’occhio il paragone con Tolkien. Come è arcinoto, negli anni ’70 Il Signore degli Anelli ebbe un successo enorme tra gli hippies californiani, fino al punto da essere considerato una vera e propria “bibbia” del movimento hippy. La distruzione dell’anello del potere, dell’anello di Sauron, era vista come il simbolo della distruzione “del potere” in quanto tale, di ogni autorità, Il Signore degli Anelli era letto insomma in chiave anarchica.
Nessuna interpretazione del capolavoro tolkieniano potrebbe in realtà essere più scorretta, più falsa di questa, che va considerata un fraintendimento voluto. Chiunque lo legga senza avere in testa interpretazioni precostituite, ben si rende conto che contro il bruto potere tirannico di Sauron si eleva la concezione del potere legittimo, del potere sacrale incarnato dall’autorità regale di Aragorn e da quella magico-sacerdotale (druidica, verrebbe da dire) di Gandalf.
Dante e Tolkien mostrano entrambi di credere alla regalità sacrale, un’autorità regia che è “sacra” di per sé, senza aver ricevuto la sua sacralità da altri, che è “pontificale” nel preciso senso di costituire un ponte fra l’umano e il divino, e questo basta da solo a rendere quanto meno sospetto il cristianesimo di entrambi.
Già la scelta politica di Dante (che finì per pagarla con l’esilio) è tale da farcelo sentire vicino. Dante era “guelfo” per il semplice fatto che dal 1266 (quando il poeta aveva un anno) con la calata in Italia di Carlo d’Angiò, i guelfi avevano acquistato dappertutto una netta preminenza, ma i guelfi fiorentini si erano divisi in “bianchi” e “neri”, e mentre i “neri” rimanevano guelfi a tutto tondo, nella “parte bianca” fiorentina avevano finito per ripresentarsi le istanze del ghibellinismo, la difesa dell’autonomia comunale dall’ingerenza del papato e la simpatia per l’almeno temporaneamente eclissata causa imperiale. Dante era ovviamente un “bianco”, e forse più vicino ai ghibellini di altri, tant’è che ghibellino è stato spesso considerato da interpreti posteriori, a cominciare da Giosuè Carducci che lo chiamò “ghibellin fuggiasco”. Quando i fuorusciti bianchi e ghibellini si unirono nel tentativo di rientrare in Firenze, tentativo culminato nella sconfitta della battaglia di Lastra, invitarono Dante a partecipare all’impresa, ma egli ricusò, considerando giustamente l’impresa troppo azzardata.
(C’è un fatto che io ho sempre trovato molto curioso riguardo a questo episodio: in molti studi critici e commenti alla Divina Commedia quest’evento viene ricordato come la battaglia DELLA Lastra, si tratta invece della battaglia DI Lastra, Lastra a Signa che oggi venendo da nord coincide con l’ultimo casello autostradale prima di Firenze; questo fatto mi fa pensare che molti critici hanno pontificato sul nostro sommo poeta senza essersi mai degnati di visitare la Toscana e i luoghi danteschi).
E come dimenticare il vigoroso, intenso ritratto che Dante ha dedicato a Farinata degli Uberti, il leader dei ghibellini fiorentini? Di certo in tutta la Commedia Dante non ha omaggiato di nulla di simile un qualsiasi capofazione guelfo.

Un capitolo a parte è rappresentato dal discorso sui cavalieri Templari. Senza dubbio, le motivazioni che portarono il papa e il re di Francia a sopprimere nella maniera brutale che sappiamo l’ordine dei Templari, furono di tipo economico e politico, perché i “Poveri cavalieri di Cristo” erano diventati troppo ricchi e troppo potenti, ma a livello profondo i monaci guerrieri costituivano una figura di combattente sacrale che la Chiesa aveva dovuto evocare durante le crociate, ma che rimaneva estranea al cristianesimo, ed è questo il motivo per il quale i Templari continuano dopo secoli ad affascinare coloro che cercano una spiritualità alternativa al cristianesimo “ufficiale”.
Dante si schiera nettamente dalla parte dei Templari; ha scritto nel Purgatorio:
“Veggio lo novo Pilato [Filippo il Bello re di Francia e persecutore dei Templari come Pilato lo fu di Cristo] sì crudele che ciò [lo schiaffo di Anagni e l’oltraggio a papa Bonifacio VIII] nol sazia, ma sanza decreto porta nel Tempio le cupide vele”.
Dandoci l’immagine delle vele simili a quelle di un vascello di corsari saraceni che entrano nel Tempio, nelle capitanerie templari per rapinare e saccheggiare.
Questo, lo sappiamo, è solo il punto d’attacco di un discorso molto ampio e complesso (che a Dante non doveva essere estraneo) perché i Templari avevano le loro posizioni di forza soprattutto in Francia e nelle Isole Britanniche (le regioni europee a più forte impronta celtica, guarda caso), e se in Francia furono brutalmente sopraffatti, nelle Isole Britanniche continuarono ad agire indisturbati semplicemente cambiando denominazione, e uno dei luoghi templari per eccellenza, la cappella di Rosslyn in Scozia è indicata da una radicata tradizione come probabile nascondiglio del mistico oggetto noto come Santo Graal.
È verosimile che Dante fosse all’oscuro di tutto ciò? A conti fatti, non molto. La presenza in Dante di un esoterismo o meno, è stata in passato oggetto di dibattiti roventi. Di sicuro si può dire che il movimento letterario del Dolce Stil Novo cui Dante apparteneva, era collegato al movimento semi-esoterico dei Fedeli d’Amore (per i quali l’amore carnale era visto come strumento per elevarsi verso l’Amore divino, una concezione che echeggia molte cose, da Platone al tantrismo), e sicuramente il suo approccio al cristianesimo era molto poco ortodosso; si può sospettare anzi che non fosse affatto un cristiano, che si limitasse a mostrarsi tale per quel tanto che serviva a evitare uno sgradevole interessamento delle autorità ecclesiastiche.
Un verso in particolare della Divina Commedia ha avuto il potere di sconcertare i commentatori più accorti:
“Et ella giudica et persegue Fortuna suo regno come il loro gli altri dei”.
Ci rimanda a una sorta di politeismo nel quale “Dio” (assumiamo che sia il Dio cristiano) non è l’unica divinità, ma piuttosto il leader di un pantheon complesso e articolato. Non è l’unico indizio di politeismo che si trova nella Commedia. In un altro passo, Dante fa risalire la litigiosità e la bellicosità dei fiorentini all’influenza di Marte cui la città era dedicata nell’antichità, e ruderi di una statua del dio della guerra sarebbero stati ancora visibili al tempo del poeta.
Non è tutto. Qualche anno fa, nel corso di un Triskell, mi capitò di avere un interessante colloquio, non ricordo con chi, ma di certo uno degli studiosi del fenomeno celtico in tutti i suoi aspetti, anche i più inconsueti, che onorano (non si può usare un altro termine) della loro presenza il festival triestino, mi fece notare che la traduzione più corrente del motto skianz, nerz, karantez, che accompagna il simbolo del Triskell e individua il significato dei tre principi cosmici, della trade rappresentata dal simbolo del triskell, ossia “forza, coraggio, amore”, è verosimilmente sbagliata, e al posto di “coraggio” si dovrebbe tradurre “sapienza”.
MI vennero subito in mente le parole che Dante nella Commedia ha immaginato incise sull’architrave della porta della città di Dite:
“Fecemi la Divina Potestate, la Suprema Sapienza, il Primo Amore”.
Tre principi cosmici piuttosto che tre persone come nella trinità cristiana; gli stessi simboleggiati nel triskell.
Ma chi era in realtà Dante Alighieri? Sembrerebbe un druido sopravvissuto o riemerso dopo un lungo buio di secoli.

Parliamo ora di John R. R. Tolkien. Secondo un diffuso stereotipo, lo scrittore britannico autore del Signore degli Anelli sarebbe stato la quintessenza della britannicità, venato di una diffidenza molto inglese e di un disprezzo mica tanto velato verso tutto ciò che è latino, “meridionale”, “mediterraneo”. Ci sono buoni motivi per pensare che questo cliché non corrisponda affatto alla realtà. Che Tolkien fosse un uomo dagli atteggiamenti contraddittori, questo è innegabile: basta pensare che egli aveva un’idea piuttosto restrittiva del celtismo, che interpretava solo in chiave di separatismo scozzese, gallese, nord-irlandese e che, da leale suddito britannico, aborriva; eppure, pensiamo a quanti elementi celtici ci sono nella sua opera: non solo un mondo popolato di creature uscite direttamente dalla mitologia celtica: elfi, nani, orchi, troll. Lo stesso anello di Sauron non è che un Graal capovolto, un mistico oggetto dai grandi poteri non da trovare, ma da perdere o distruggere.
Per capire se l’atteggiamento di Tolkien nei confronti del mondo latino fosse quello che gli è stato spesso attribuito, o se addirittura non sia ravvisabile in Tolkien una perlopiù ignorata componente latina, occorre fare riferimento alla sua opera letteraria, che occupa una posizione affatto peculiare nella letteratura sia pure fantastica.
Tolkien era prima di tutto un linguista che per buona parte della sua vita ha insegnato filologia germanica all’università di Oxford, e quel che più conta, non solo dotato di un’eccellente competenza nel suo campo, ma soprattutto di una grande passione per esso.
Con una procedura che è ben lontana da trovare riscontri nel modus operandi di altri autori (fantasy o meno). John R. R. Tolkien si è dapprima prodotto nell’invenzione di alcune lingue d’immaginazione, poi nella creazione di un mondo in cui queste lingue sarebbero potute essere parlate, con i suoi caratteri fisici, le sue forme di vita, i suoi popoli e razze, la sua storia, la sua geografia, e solo dopo ha immaginato vicende ambientate in questo mondo.

È noto l’episodio che determinò l’inizio della carriera letteraria di Tolkien: mentre stava correggendo i compiti dei suoi allievi, si trovò di fronte una pagina che uno di questi aveva lasciato in bianco, e – preso da un’intuizione improvvisa – scrisse su quel foglio bianco quello che poi sarebbe diventato l’incipit del suo primo romanzo, Lo Hobbit.
Per capire Tolkien, quindi, non penso sia sbagliato partire dalle sue “lingue inventate” che sono in ultima analisi la ragion d’essere della sua opera letteraria. La tesi che io vorrei sostenere a questo riguardo, è che se Tolkien avesse provato per il mondo latino – mediterraneo il disdegno che alcuni hanno supposto, sarebbe difficile trovare parole latine nel lessico di queste lingue immaginarie che ha sviluppato facendo ricorso a tutte le sue competenze professionali; invece ce ne sono, al punto che si potrebbe forse parlare di una componente latina nell’autore del Signore degli Anelli.
Fra le parole che formano il lessico delle lingue tolkieniane, alcune rappresentano un’invenzione dell’autore, altre derivano con varie trasformazioni da lingue esistenti; molte di queste hanno radici ugrofinniche (Tolkien amava in maniera particolare il poema finnico Kalevala, e ha asserito di aver preso il Kalevala come modello per Il Signore degli Anelli), poi celtiche, germaniche e – in misura minore ma riconoscibile – latine.
In particolare, questo lo si scopre esaminando il lessico dell’elfico, che è il più completo fra i linguaggi creati da Tolkien.
Qualche esempio? “Orn” che significa “albero” (si veda “Celeborn”, “Albero d’argento”, nome del marito di Galadriel), corrisponde a “orno” che è un sinonimo oggi desueto di frassino.
“Nenuphar”, è una delle piante che fioriscono nella Contea, e non è altro che il nannufero in italiano.
“Mor”, oscuro (che troviamo nei nomi di località come Mordor o Moria), la radice è la stessa di “moro”.
Ancora più interessante, “car”, che significa “rosso” (ad esempio “Caradhras”, “Corno rosso”, il nome della montagna che la Compagnia dell’Anello tenta invano di scalare prima di prendere la strada per Moria). La cosa curiosa è che Tolkien dava a questa parola un particolare valore; secondo lui, riconoscere il significato di “rosso” in questa parola, significava condividere spontaneamente la sua stessa sensibilità.
Ebbene, è una radice latina, la stessa da cui vengono parole come “carminio” e “scarlatto”, forse anche “carne”.
Un caso ancora più interessante è rappresentato dalla parola “atar”, “padre”, parola che da un lato si riallaccia a radici indoeuropee (“pater” latino, “vater” o “father” germanico, “pitar” indo-iranico), dall’altro ricorda la parola etrusca con lo stesso significato, “ati”.
Se davvero Tolkien avesse avuto un’idea negativa del mondo latino-mediterraneo, avrebbe messo accenti latini o addirittura etruschi in bocca ai suoi amati elfi?
E non possiamo dimenticare neppure la profonda amicizia che univa Tolkien a Clive Staples Lewis, l’autore delle Cronache di Narnia. In tempi recenti sono saltate fuori prove che indicano come in realtà Narnia non sarebbe altro che la versione letterariamente trasfigurata del paese di Narni nell’Italia centrale, che del resto avrebbe portato il nome di “Narnia” fino all’età moderna, per gran parte della sua storia.
Naturalmente, sono consapevole che se Dante Alighieri ci rivela sorprendenti analogie con il celtismo e il pensiero druidico, parlare di Tolkien come di un “latino” è certamente un’iperbole. Tuttavia una cosa si può certamente dire, che questi due grandi, come forse altri in misura maggiore di quel che pensiamo, si dimostrano al di sopra della frattura fra mondo latino – mediterraneo e mondo nordico – germanico, ma ci fanno percepire lo spirito dell’Europa nella sua interezza.
[ Articolo pubblicato il 30/01/11 e scritto da “Romnod” ]