Le radici della tradizione fantastica europea si situano in gran parte nel mondo celtico. Queste radici si diramano in due filoni principali, uno dei quali è largamente noto ed è stato spesso oggetto di commenti e ricerche, mentre l’altro in genere è stato molto meno osservato e considerato.
Il folklore europeo, le creature fantastiche di cui è popolato l’immaginario dell’Europa hanno origini celtiche: elfi, folletti, gnomi, troll, banshee; creature che talvolta l’avvento del cristianesimo ha retrocesso dal rango di divinità minori al “piccolo popolo” come è avvenuto per gli elfi.
Creazioni celtiche sono anche il mito arturiano e quello del Graal, nonostante che Richard Wagner abbia cercato di trapiantarli in terra teutonica, trasformando “Perceval le Galois” nel germanico Parsifal e sostituendo Artù con Amfortas. Merlino, cristianamente retrocesso da sacerdote a mago, non è che l’eco medievale del druido.
Perfino un piccolo lembo di celticità sopravvissuto come la Cornovaglia può vantarsi patria di un mito “classico” dell’amore cortese come la storia di Tristano e Isotta.
Questi miti di origine antica sopravvissuti alla cristianizzazione o nati al trapasso fra antichità e Medio Evo, sono all’origine del fantastico moderno, specialmente nella forma dell’heroic fantasy che ne ha preso spunto spesso in forma diretta e ingenua, talvolta attraverso una attenta e sottile, acculturata ricostruzione filologica, come nel caso di John R. R. Tolkien: si pensi al “Signore degli Anelli”, dove l’anello di Sauron l’Oscuro Signore, attorno al quale ruota tutta la vicenda, è un Graal capovolto, un oggetto non da ritrovare ma da perdere e distruggere.
Tutto questo è ben noto e non è perlopiù messo in discussione; quello che invece è spesso ignorato, è il contributo degli autori moderni di origine celtica al patrimonio fantastico europeo. Esso ha in gran parte nella nostra epoca trovato espressione in lingua inglese, ma non tanto in conseguenza dell’egemonia che questa lingua ha oggi acquistato a livello planetario in conseguenza della posizione dominante degli Stati Uniti, quanto piuttosto a partire dalla rivoluzione espressiva e stilistica introdotta nel XIX secolo con il romanzo gotico inglese; e già questo dovrebbe metterci sull’avviso, poiché le Isole Britanniche sono la parte dell’Europa dove il substrato celtico è indiscutibilmente ancora oggi più forte. Ma la vera sorpresa non è tanto questa, quanto il fatto che se andiamo a considerare il fantastico moderno non di lingua inglese, ci imbattiamo in autori provenienti dalle regioni nelle quali l’impronta celtica si è conservata con maggiore evidenza: bretoni in Francia, galiziani (galleghi) in Spagna; perfino, per quanto riguarda l’Italia, per una volta che incontriamo un autore fantastico di levatura europea, è il meno mediterraneo, il meno solare che si possa immaginare, un gallo cisalpino – potremmo dire – se mai ve ne furono dopo la conquista romana, come fu Dino Buzzati.
Tra i padri nobili della letteratura fantastica moderna, troviamo in primo luogo un antenato illustre, l’irlandese Jonathan Swift, e due scozzesi eminenti, Arthur Conan Doyle e Robert Louis Stevenson, poi ancora un altro irlandese quasi altrettanto eminente, Joseph Sheridan Le Fanu.

Jonathan Swift, noto soprattutto per “I viaggi di Gulliver”, è oggi pubblicato come, e considerato prevalentemente un autore per l’infanzia, ma questo è uno sminuimento, una sottovalutazione di quella che fu una delle figure più singolari, anticonformiste, bizzarre fino alla genialità, della letteratura fantastica moderna.
Nato a Dublino nel 1667, Swift visse a cavallo fra XVII e XVIII secolo, fu all’incirca contemporaneo di Isaac Newton, John Locke, George Berkley, David Hume, appartiene a quel periodo di grande rigoglio intellettuale delle Isole Britanniche che precedette l’illuminismo francese e gli fornì non poche idee e modelli.
In questa chiave vanno in realtà letti anche “I viaggi di Gulliver”, prototipo di quel romanzo o racconto filosofico che saranno portati alla massima espressione letteraria dal “Candido” di Voltaire e dall’ “Emilio” di Rousseau.
Il libro è composto di quattro parti, sebbene le edizioni moderne per l’infanzia, in genere, non ne riportino che le prime due, essendo le altre troppo difficili per i ragazzi.
I primi due viaggi portano l’eroe di Swift negli immaginari paesi di Lilliput e Brobdignag, il primo abitato da esseri minuscoli, il secondo da giganti. Soprattutto il primo episodio è divenuto popolare al punto da veri fornito al linguaggio comune la parola “lillipuziano”. Il tema di creature fantastiche che differiscono dall’umanità soprattutto per le dimensioni, non era certamente nuovo: andava già dai ciclopi e dai titani della mitologia classica agli Jotun di quella nordica e germanica, ai giganti ricorrenti nelle fiabe e nelle leggende, e per quanto riguarda le piccole dimensioni la gamma, comprendente nani, gnomi, elfi, folletti, leprecauni, spiritelli vari, era ancora più vasta, ma l’interesse di Swift non era quello di aggiungere altri elementi leggendari ad un folklore già vasto, bensì far capire ai lettori come il nostro atteggiamento sia influenzato dai punto di vista, poiché per ognuno le proprie dimensioni sono quelle “normali”, “normalità” e “buon senso” di cui ciascuno crede di essere campione prendendo se stesso come metro.
Nel quarto viaggio, Gulliver arriva all’isola dei cavalli parlanti, creature intelligenti e pacifiche incapaci di comprendere cosa siano la guerra, la violenza, la menzogna, la rapacità, la bramosia sessuale e le mille altre tare dell’uomo cosiddetto civile; è in questo episodio che lo spirito satirico di Swift tocca maggiormente l’ampiezza della riflessione filosofica, la critica alle nostre società è svolta mediante la creazione di un punto di vista “esterno”, come più avanti troveremo in Montesquieu.
Tuttavia l’episodio più inquietante dei “Viaggi” è il terzo: qui ci troviamo nella fantascienza con due secoli di anticipo, in esso Gulliver s’imbatte in un’isola volante, Laputa, una sorta di UFO ante litteram, e non mancano elementi ancor più sorprendenti: qui sono descritti con sorprendente esattezza, circa la massa e la distanza dal pianeta, i satelliti di Marte, allora del tutto sconosciuti alla scienza astronomica: quando più di un secolo dopo essi furono scoperti dall’astronomo Asaph Hall, egli li battezzò “Phobos” (paura) e “Deimos” (terrore) proprio perché sbigottito dalla concordanza con le “immaginarie” indicazioni del racconto di Swift.
Tranne i “Viaggi“, la gran parte degli scritti di Swift, che ebbe una produzione intensissima, scritti polemici, satirici ed ironici, è oggi sprofondata nell’oblio, fa eccezione un breve brano del 1729 scritto col pennino intinto nel vetriolo, la “Modesta proposta per prevenire…”, per prevenire che i figli delle classi povere siano di peso ai loro genitori, che possono risolvere il problema mangiandoseli. Questo acido invito al cannibalismo è forse la protesta più estrema e radicale contro le ingiustizie sociali del suo tempo, da parte di un uomo che non si fa illusioni circa la capacità umana di comportarsi saggiamente.
L’età romantica ed il XIX secolo, come è noto, introducono nella cultura europea una svolta di centottanta gradi rispetto all’età precedente, l’illuminismo dominato dalla fiducia nella ragione. Le generazioni del nuovo secolo, passate attraverso i bagni di sangue della rivoluzione francese e delle avventure militari napoleoniche, riscoprono sentimenti, miti e paure ancestrali.
Simbolo inquietante della nuova epoca diventa un personaggio riemerso da antiche cripte e da ancestrali leggende che sembrava ormai bandito per sempre nell’età di Voltaire: il vampiro.

Se il primo a turbare i sonni dell’Europa colta sarà il vampiro di William Polidori, un tantino troppo estetizzante e scopertamente modellato sulla figura di Lord Byron, un contributo fondamentale all’elaborazione moderna di questo mito che attraverserà trionfante il XIX ed il XX secolo, prima del “Dracula” di Bram Stoker, lo darà l’irlandese Joseph Sheridan Le Fanu con il romanzo breve “Carmilla” che rilegge il mito in versione femminile, introducendo il personaggio della vampira, non privo di un suggestivo ed inquietante erotismo.
Noto soprattutto per questo romanzo breve, pure Le Fanu, nato a Dublino nel 1814, è stato autore di una quindicina di romanzi ed innumerevoli racconti la cui stesura è iniziata quando era studente e trovò spazio sulle pagine della rivista studentesca “Dublin University Magazine”, cui continuò a collaborare per tutta la vita e di cui divenne pure proprietario. Dopo una breve esperienza nell’avvocatura ed un matrimonio che lo lasciò vedovo inconsolabile nel 1858, Le Fanu si dedicò esclusivamente alla letteratura del soprannaturale fino alla morte avvenuta nel 1873. La sua opera narrativa ispirata almeno in parte alle visioni del mistico svedese Emmanuel Swedenborg costituisce un’inquietante “geografia del soprannaturale”. In essa spicca “Carmilla” del 1871, che precede il “Dracula” di Bram Stoker che comparirà invece nel 1879.
Forse ben pochi autori hanno avuto presso il pubblico dei lettori una fama “doppia” e contraddittoria come Robert Louis Stevenson. Ad alcuni, questo nome richiama alla mente un romanzo divenuto anch’esso un classico della letteratura per ragazzi che, nonostante le peripezie a cui il protagonista va incontro ha infine uno scioglimento “solare” e positivo, L’isola del tesoro, ad altri invece rammenta con maggiore immediatezza Lo strano (e di certo più inquietante) caso del dottor Jekyll e mister Hyde.
In realtà, tale giudizio ricorrente sull’autore scozzese non tiene conto di molte cose, e prima di tutto del fatto che solo apparentemente “L’isola del tesoro” è una narrazione realistica: a ben guardare, i topoi del fantastico ci sono tutti, dal viaggio alla ricerca di un tesoro, modellato sulle queste medievali, a cominciare dalla più famosa di tutte, quella del Graal, all’avventura del giovane Jim Hawkins, vera e propria iniziazione che lo immette ad un livello di superiore consapevolezza del mondo degli adulti, ma soprattutto questo romanzo va inquadrato nel complesso dell’opera di Stevenson ed in particolare nelle storie “di mare”. Stevenson sentì fortemente il fascino dei mari del Sud, dove si stabilì dal 1888 alla sua morte avvenuta a Tahiti nel 1894: egli risentì profondamente del fascino di un mondo “primitivo” ancora al di qua della suddivisione occidentale fra realismo e fantastico, fra spirito e materia, e lo si vede bene in narrazioni dove il mito e il magico sboccano senza soluzioni di continuità nella vita quotidiana, si veda ad esempio quel piccolo gioiello che è “La bottiglia del diavolo”.
“Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde” rimane in ogni caso uno dei romanzi più geniali della moderna letteratura fantastica, pubblicato nel 1886, anticipa non soltanto “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde che comparirà cinque anni più tardi, ma la ricerca psicanalitica di Sigmund Freud, il cui primo testo importante, “L’interpretazione dei sogni”, sarà pubblicato nel 1895, un anno dopo la morte dello scrittore scozzese.
Se nel “Dorian Gray” di Wilde, il tema del doppio è svolto secondo canoni moralistici per nulla distanti dal “William Wilson” di Poe, nello “Strano caso” di Stevenson è l’inconscio, la parte nascosta della psiche (mister Hyde, il “signor Nascosto”) che viene finalmente alla luce precorrendo Freud, evocato da una ragione che si autodistrugge cercando di superare i propri limiti (Je –kyll, “uccidere l’Io”).
E’ difficile, ancora oggi, leggere questo libro senza avere la sensazione che con esso si sia varcata una soglia, che esso rimanga una delle opere fondamentali che contraddistinguono la letteratura fantastica moderna e la distinguono da forme di fantastico più tradizionale.
Probabilmente uno degli autori di lingua inglese più letti e conosciuti al mondo è sir Arthur Conan Doyle, creatore del personaggio di Sherlock Holmes e padre del romanzo giallo.
Sebbene già alcuni romanzi che hanno come protagonista Sherlock Holmes lascino filtrare squarci di atmosfere inquietanti, ambientati in remoti castelli od in “mansion” patrizie sperdute nella brughiera inglese – scozzese dove si manifestano presenze apparentemente ultraterrene come ad esempio nel “Mastino dei Baskerville”, forse è meno noto che Conan Doyle ebbe anche una produzione di racconti fantastici a cavallo fra la fantascienza ed il soprannaturale.
Il protagonista della maggior parte di essi è il professor Challenger, un sanguigno scienziato che è un po’ il contraltare dell’esangue e molto inglese Sherlock Holmes.
L’avventura più nota del professor Challenger è descritta nel romanzo “Il mondo perduto”, nel quale un manipolo di esploratori guidati dall’intraprendente professore (battagliero fin nel nome che in inglese significa “sfidante”) penetra in una regione selvaggia nel cuore dell’Amazzonia ancora popolata da dinosauri e cavernicoli.
Assieme al “Viaggio al centro della Terra” di Verne, questo romanzo è stato il capostipite di tutta una serie di storie di argomento fanta – preistorico, nel quale rivivono dinosauri od altre creature del lontano passato, che ha avuto una notevole fortuna letteraria e cinematografica, arrivando fino a “Jurassic Park” di Michael Crichton.
Conan Doyle era scozzese di Edimburgo, e l’eredità celtica era chiaramente rivelata non solo dai lineamenti e dalla complessione fisica, ma anche dal suo secondo nome, tipicamente gaelico, che è lo stesso che Robert Howard attribuirà al suo celebre eroe barbaro.
Tuttavia, prescindendo dagli immensi meriti di Conan Doyle come padre del romanzi giallo, le sue prove nel campo del fantastico non ne fecero solo un precursore della fantascienza, ma arrivarono a sfiorare spesso il terreno del soprannaturale, come nel romanzo oggi dimenticato “Orrore nel cielo” del 1913, nel quale l’autore immagina che i primi aviatori che da qualche anno hanno cominciato a solcare quella dimensione verticale finora interdetta all’uomo, s’imbattano in misteriose entità maligne che dominano l’alta atmosfera, oppure il racconto “Lo specchio”, nel quale un uomo in particolari condizioni di stress nervoso vede materializzarsi in un antico specchio proveniente dalla reggia di Edimburgo il riflesso di un antico delitto, l’assassinio di lord Darnley, marito della regina Maria Stuarda.
L’episodio nel quale si evidenziò meglio la propensione, profondamente celtica, di Conan Doyle per il mistero e il soprannaturale, per la verità è un episodio che non viene ricordato molto a suo onore, e che rivela una ingenuità sorprendente nel creatore di Sherlock Holmes, il detective armato di una ferrea logica deduttiva; si tratta del famoso episodio delle fate di Cottlingley.

Nel 1917, due ragazzine di questa località rurale dell’Inghilterra scattarono una serie di fotografie che, rese pubbliche, ebbero il potere di sbalordire: esse ritraevano sui prati e fra i cespugli minuscoli esseri di aspetto umano, simili a graziose fanciulle con ali di farfalla sul dorso. Mandato ad indagare, Conan Doyle certificò l’autenticità del fenomeno, che invece era un trucco fra i più sfacciati. In seguito, sono stati ritrovati perfino gli album dai quali le ragazzine di Cottlingley avevano ritagliato le figurine di fate che poi avevano fotografato in mezzo all’erba.
Tuttavia, i detrattori di Conan Doyle riguardo a questo episodio, non tengono conto di un fatto: Arthur Conan Doyle aveva da poco perduto suo figlio, caduto in combattimento sul fronte occidentale. Le persone a cui capita di vivere simili drammatiche esperienze sono portate a credere in tutto ciò che ha un legame con il soprannaturale, a tenere viva la speranza che qualcosa dei loro cari, soprattutto se si tratta di figli, continui ad esistere; lo sanno bene medium e ciarlatani che fanno di queste persone le loro vittime preferite. La ferrea logica di Sherlock Holmes non può nulla contro il dolore di un padre.
Non si può parlare del contributo dato dalla celticità moderna alla letteratura fantastica senza menzionare il poeta premio nobel irlandese William Butler Yeats. Yeats è stato l’animatore del movimento del “Celtic Revival”; egli non intendeva tale movimento soltanto in termini linguistici, artistici e culturali, ma come una vera e propria rinascita dell’anima celtica a cominciare dalla spiritualità, facendosi assertore di una religiosità panteistica e naturalistica non necessariamente anti- cristiana, ma pre- cristiana.
Il poeta, cui venne conferito in premio nobel nel 1923, si dedicò anche ad un’assidua raccolta di favole, tradizioni, elementi del folklore irlandese che ne fanno per l’Isola Verde l’equivalente di quello che furono i fratelli Grimm per la Germania, con tre raccolte di fiabe e leggende che sono: “Fairy and Folk Tales of the Irish Peasantry” del 1888, “Representative Irish Tales” del 1890, e “Irish Fairy Tales” del 1892.
Ciò però non nel quadro di studi etnologici o sul folklore, nello stile della dotta erudizione dei due fratelli tedeschi, bensì nell’intento di far rivivere l’antica anima celtica e la sua spiritualità che Yeats vedeva in termini molto simili a quelli delle religioni orientali, induismo e buddismo. Questa ricerca spirituale portò Yeats verso l’esoterismo.
Collegata al movimento del Celtic Revival fu, infatti, l’associazione esoterica Golden Dawn della quale lo stesso Yeats fu per un certo periodo a capo. Quest’associazione ebbe il merito di essere una vera miniera di talenti letterari che contribuirono a rinnovare radicalmente la letteratura fantastica del XX secolo.
Probabilmente lo scrittore più noto al grosso pubblico fra gli affiliati di quest’associazione, fu Abraham, “Bram” Stoker, l’autore di “Dracula”, ma forse maggiore importanza ebbero tre altri autori, uno dei quali inglese, Algernon Blackwood, gli altri due dei celti genuini, l’irlandese lord Dunsany ed il gallese Arthur Machen. Questi ultimi due ebbero anche un’influenza determinante su quello che è unanimemente considerato il padre della moderna narrativa dell’horror, l’americano H. P. Lovecraft.
Essendo un po’ al di fuori del nostro argomento, su Blackwood non vorrei soffermarmi troppo, ma non si possono passare sotto silenzio due cose: la prima che egli ha dato vita nelle sue storie al personaggio di John Silence, “phisician extraordinary”, che è stato il capostipite di tutti i detective dell’occulto e ghostbusters della letteratura e della cinematografia fantastiche; la seconda che uno dei suoi racconti più apprezzati e più di atmosfera, “Ancient Sorcieries” narra la storia di un forestiero cui capita di fermarsi in una cittadina abitata da misteriosi uomini – felini, che ha ispirato i due film (l’originale e il remake) “Il bacio della pantera”, e un po’ tutto il filone cinematografico su questa falsariga.
Edward John Moreton Drax Plunkett, diciottesimo barone di Dunsany, esponente di una famiglia irlandese di antica aristocrazia è un personaggio che nella letteratura fantastica moderna ha avuto un’importanza cruciale. Sicuramente ha avuto una fama presso il grosso pubblico inferiore ai suoi meriti, ed in Italia a tutt’oggi di lui sono stati pubblicati un romanzo, “La maledizione della veggente” (Sonzogno) ed una manciata di racconti nelle sedi più disparate ma, facevano notare i critici di letteratura fantastica Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, ha in compenso avuto una notevole influenza su quasi tutti gli autori fantastici successivi, molti dei quali, a cominciare dallo stesso H. P. Lovecraft, hanno attraversato nell’evoluzione delle proprie tematiche un “periodo Dunsany”, e la cosa non è per nulla sorprendente, poiché, oltre a caratterizzarsi per una fantasia capace di trarre spunti dai più diversi contesti mitologici e fiabeschi, fondendo armoniosamente elementi che in mano di altri sarebbero riusciti disomogenei, il barone irlandese è stato un ineguagliato maestro di stile.
Ecco cosa scrive a questo proposito H. P. Lovecraft in “L’orrore soprannaturale nella letteratura”, un saggio che rimane ancora oggi fondamentale per chi voglia accostarsi allo studio della letteratura fantastica moderna:
“Dunsany è autore insuperato nella magia di una prosa cristallina e melodiosa, e sommo nella creazione di un mondo splendido e languido di visioni iridescenti ed esotiche. I suoi racconti e i brevi lavori teatrali formano un elemento quasi unico nella nostra letteratura. Inventore di una nuova mitologia e ideatore di un folklore sorprendente, lord Dunsany è votato a un misterioso mondo di bellezza fantastica e impegnato nell’eterna guerra contro le volgarità e le brutture della vita quotidiana (…). Questo autore attinge con efficacia terribile da quasi ogni raccolta di miti e leggende entro il circolo di cultura europeo, generando un ciclo composito od eclettico di fantasia in cui colore d’Oriente, forma ellenica, tenebrosità teutonica e malinconia celtica si fondono così superbamente da sostenersi e completarsi a vicenda senza sacrificio e con perfetta conformità e omogeneità” (1).
Riguardo ad Arthur Machen, sarà bene ricordare il giudizio espresso su di lui da H. P. Lovecraft in L’orrore soprannaturale nella letteratura: “Tra i creatori viventi di paura cosmica, assurti agli apici più artistici, nessuno può sperare di eguagliare il versatile Arthur Machen, autore di qualche dozzina di racconti lunghi e brevi, in cui gli elementi dell’orrore nascosto e della paura latente raggiungono una corposità e un’acutezza realistica quasi incomparabili” (2).
Tutta l’opera di Arthur Machen è impregnata di suggestioni fortissime che affondano le radici nel folklore celtico, compresi i suoi lati più cupi e stregoneschi; verrebbe da dire che se è esistito un druido nella nostra epoca, è stato certamente lui. Buona parte della sua opera è tesa ad esplorare la dimensione del male (la cui profondità sfugge all’uomo contemporaneo, come l’altezza del bene; gli uomini della nostra epoca, secondo lo scrittore gallese, sfuggono all’uno e all’altro rifugiandosi nella piattezza della mediocrità). In questo contesto è cruciale l’indagine sul mito del “piccolo popolo”, riportato alla sua terrificante realtà originaria al di là delle edulcorazioni create da Edmund Spenser ed anche da Shakespeare (“Sogno di una notte di mezza estate”), realtà che è data dalla possibilità della regressione ad una dimensione non umana e pre – umana; esemplari da questo punto di vista racconti come “La storia del sigillo nero”, “La mano rossa”, “La piramide lucente”.
A lato e di contro al male, c’è però il bene, anch’esso concepito sulla base di una visione impregnata di tradizioni celtiche, né sarebbe potuto essere altrimenti, visto che Arthur Machen nacque proprio in quella Caerlson upon Usk che secondo la tradizione altro non sarebbe che la Camelot arturiana. Al tema del Graal, Machen ha dedicato uno dei suoi più bei racconti, “The secret Glory” sfortunatamente inedito in Italia: nella nostra epoca materialista c’è ancora qualcuno che, nascostamente, si adopera a ricercare il santo Graal, a perseguire quella “gloria segreta” che non s’identifica col successo esteriore.
Non parlerò qui di John R. R. Tolkien, l’autore del “Signore degli Anelli”; che egli fosse un britannico fino al midollo, e senza troppo amore per i Celti (almeno a parole), è risaputo, eppure la sua opera pesca a piene mani nella mitologia e nel folklore celtici, fatto evidenziato non solo da me, e ben più autorevolmente che da me. Un celta suo malgrado, mi è capitato di definirlo in un altro articolo su questo sito. Celta senza alcun dubbio fu invece un amico di Tolkien, uno dei pochi colleghi di Oxford con il quale fu unito da un rapporto di amicizia molto stretto e prolungato nel tempo (e che ebbe anche la sua parte nell’incitarlo a portare a termine il suo monumentale romanzo, la cui stesura si protrasse per molti anni ed attraverso diverse interruzioni), ed anch’egli scrittore, di minor successo non tanto per una qualche minor abilità o qualità letteraria, ma per aver scelto una forma espressiva meno congeniale al grosso pubblico, più aristocratica e fortemente connotata da un messaggio ideologico – religioso, l’irlandese Clive Staples Lewis.
I romanzi di C. S. Lewis, che verrebbe da definire “gnostici”, “Perelanda”, “Lontano dal pianeta silenzioso”, “Questa orribile forza”, compongono una trilogia che fonde in maniera originale fantascienza e misticismo cristiano. Il dramma della Caduta, il mistero dell’Incarnazione, la redenzione come lotta fra il principio divino e le forze del male, non sono limitati alla sfera terrestre, ma sono destinati a ripetersi in forme diverse nel Cosmo, ovunque vi siano esseri senzienti.
Lewis è stato un autore che non ha concesso nulla al grosso pubblico, ma ha parlato per chi era disposto a recepire il messaggio profondo dei suoi scritti; i suoi romanzi, pubblicati in Italia nel dopoguerra, non sono oggi facilmente reperibili, ed è un peccato.
“Timeo hominem unius libri”, diceva sant’Agostino, “temo l’uomo autore di un solo libro”; ed in effetti chi si dedica per l’intera esistenza a mettere la sua intera anima in un’unica opera letteraria, a cesellare e limare la scrittura fino a farne un gioiello poi portato a termine da altri perché la sua intera esistenza non è bastata a dargli compimento, deve essere un personaggio notevole, e sicuramente si mette in rotta di collisione con la mentalità di un’epoca come la nostra nella quale anche l’arte e la letteratura si avvicinano alla produzione in serie, divenute come sono, di sciatta produzione e di facile consumo.
Un angolo sopravvissuto del mondo celtico di estensione modesta come la Cornovaglia ha dato alla letteratura gaelica un contributo nulla affatto trascurabile con la creazione letteraria ed il mito di Tristano e Isotta. Questo mito ha avuto la sua riedizione moderna nella letteratura “cornish” nel romanzo incompiuto “Castle Dor” di sir Arthur Quiller-Couch, (1863 – 1944) completato da Daphne du Maurier e di cui esiste una rara edizione italiana, oggi praticamente introvabile con il titolo “La rosa e l’ancora” (Rizzoli 1971).
Quello che ancora oggi colpisce nel romanzo di Quiller-Couch è la capacità di abbinare una scrittura estremamente curata con uno spirito naturalistico che sorprende in un autore di estrazione aristocratica, che ha voluto ri-ambientare la storia di Tristano e Isotta nell’ambiente povero dei contadini e dei marinai cornish e bretoni, dandoci anche una rara documentazione di un mondo oggi scomparso, in una narrazione che ha poco o nulla da invidiare ad uno Zola o ad un Verga.
Fra gli autori non di lingua inglese ricollegabili da un lato all’eredità celtica, dall’altro alla tradizione della narrativa fantastica, il gruppo più consistente è rappresentato con ogni probabilità dagli autori francesi. Il riferimento che si può fare è principalmente, ma non esclusivamente, all’area bretone.

Prendiamo ad esempio l’Alvernia, regione “classica” verrebbe da dire, di quella Francia rurale profonda che conserva l’impronta di suggestioni molti antiche, e che non a caso prende il nome dal popolo gallico degli Alverni. Qui, a differenza che nella Bretagna, una comunità che abbia mantenuto una parlata celtica non si è conservata, ma rimangono una popolazione e un paesaggio che conservano un’impronta inconfondibile: non è un caso che H. P. Lovecraft vi abbia ambientato “Psychopompos”, un inquietante racconto in forma di ballata medievaleggiante, e che Clark Ashton Smith l’abbia trasfigurata nel reame di Averoigne (dal francese “Auvergne”), ambientazione di alcune delle sue storie più allucinanti. L’Alvernia è stata la patria di un singolare autore fantastico come Henry Pourrat.
Un autore che tuttavia può sembrare strano includere in questo discorso, è Guy de Maupassant. Maupassant è stato uno degli autori francesi più popolari del XIX secolo, autore di romanzi “borghesi” e sentimentali, talvolta conditi di un’ironia lievemente cinica che ne ha fatto un po’ l’anti – Victor Hugo, con una narrazione che è forse la più lontana che si possa concepire dal moralismo prolisso ed a volte tedioso dell’autore dei “Miserabili” e di “Notre Dame de Paris”. Una delle prodezze di Maupassant fu la stesura di un romanzo erotico, “Bel Ami”, nato da una scommessa, e scritto per dimostrare che si poteva fare dell’erotismo senza impiegare neppure una parola volgare.
Eppure Maupassant ha un lato fantastico ed oscuro forse meno noto, di cui ha dato eccellente priva nel romanzo breve “Le Horla” ma non solo in esso. Precisamente bretone, Maupassant non era, ma nativo di Dieppe in Normandia, eppure la Bretagna compare con tale insistenza come sfondo delle sue storie soprattutto quelle che rivelano uno spirito lontano dal “demi monde” cittadino e nelle quali s’infiltrano elementi fantastici, da rendere il sospetto di una “parentela”, di un’affinità con questa terra del resto contigua all’area normanna, più che una congettura.
Sono pochissime in realtà le storie “del terrore” capaci di trasmettere davvero qualche brivido ad un lettore un po’ smaliziato, ma non si può fare a meno di includere “Le Horla” in questa ristretta élite. La vicenda è questa: un uomo si trova nella sua casa assediato e prigioniero di una misteriosa creatura invisibile, l’Horla, appunto, che è forse il capostipite di una nuova razza destinata a soppiantare l’umanità, o forse nient’altro che il frutto di un delirio allucinatorio.
Molti racconti di Maupassant, oltre all’ “Horla” rivelano inaspettati squarci di fantastico in una narrativa dall’apparenza realistica, uno dei più noti è “L’auberge”, dove un uomo, custode invernale di un albergo montano che rimane deserto durante la brutta stagione, cede lentamente alla solitudine ed alla follia; ho sempre avuto l’impressione che “Shining” di Stephen King abbia un grosso debito con questo racconto.
Al contrario, un racconto poco noto è “Le diable”, nel quale una contadina bretone si vendica di una vicina camuffandosi da apparizione demoniaca. Maupassant ironizza senza riguardo sulle superstizioni ed il folklore che affondano le loro radici nell’anima celtica, eppure ne sembra singolarmente attratto come se, nonostante tutto, attingessero a “quelle ragioni che la ragione non conosce”.
All’opposto di Maupassant, nessuna ironia, nessuna intenzione dissacratrice, ma al contrario uno sviscerato amore per le tradizioni bretoni è presente invece in Anatole Le Braz, che fu un po’, e prima di lui, lo Yeats da questa parte della Manica.
Nato nel 1859 a Saint Servais, villaggio immerso nella campagna bretone, Le Braz fu insegnante di liceo, e più avanti negli anni docente universitario di letteratura, ed alternava l’attività d’insegnamento alla raccolta di racconti e tradizioni popolari, ascoltate dalla bocca di una contadina, di una lavandaia, di un carrettiere, allo stesso modo si quanto hanno fatto i fratelli Grimm per l’area germanica e Yeats doveva fare per l’Irlanda. Da questo lavoro è uscito il suo libro più noto, pubblicato nel 1893, La “Légende de la mort chez les Bretòns armoricains”, poiché, come egli evidenzia in questa raccolta, l’elemento dominante nel folklore bretone è il rapporto dell’uomo con la morte, la convinzione che il mondo dei vivi e quello dei morti non siano rigidamente separati, ma che tra l’uno e l’altro esista un continuo rapporto ed intersecarsi. Questa convinzione è il fondamento di numerosi riti tradizionali bretoni e celtici, a cominciare da quelli della notte di Samhain, l’equinozio d’autunno, nella quale venivano fatte offerte votive ai defunti, una tradizione che in Bretagna alla fine del XIX secolo era ancora ben viva.
L’atteggiamento di Le Braz verso questo arcaico mondo contadino nel quale egli stesso si sente profondamente radicato, non è però, come per i fratelli Grimm, di pura curiosità erudita, e si rende conto presto dell’incompatibilità fra questa religiosità di matrice pagana – celtica ed il cristianesimo.
A tale riguardo, nel volume Maestri della letteratura fantastica (EDIPEM 1983), Edy Minguzzi scrive:
“Molto presto si rende conto dell’impossibilità di accedere alla comprensione di questo universo conservando gli schemi di apprendimento del cristianesimo. La religione ufficiale non è che una sottile vernice stesa su una memoria che va ben al di là del tempo. Le Braz se ne va allora con la sua redingote e il suo bastone attraverso i sentieri della bassa Bretagna alla ricerca di ciò che ancora sopravvive del paganesimo.
Con sua grande sorpresa, scopre che questi ricordi sono ovunque: la religione che ha le sue origini affondate nel più remoto passato è la porta del mondo magico e fantastico” (3).
Oggi prese di posizione di questo tipo, dopo la New Age, dopo che la stessa Chiesa cattolica ha abbandonato antichi radicalismi, non appaiono eccessivamente problematiche, ma provatevi ad immaginare quale coraggio intellettuale richiedessero un secolo fa .
Sono poi seguite altre opere sul folklore bretone: “Contes et légendes de la Bretagne”, “Tèàtre Celtique” uno studio sul teatro, “Paques d’Islande”, raccolta di racconti dei pescatori islandesi che dimostra un progressivo allargamento d’interesse verso il folklore non solo celtico ma europeo, ed infine un romanzo, “Gardien du feu”.
L’interesse per il folklore, le superstizioni, le leggende, il meraviglioso, il magico, il fiabesco nel quale nelle tradizioni popolari la vita quotidiana sbocca senza soluzione di continuità è presente senza ironia né cinismo, ma con un profondo amore per le proprie radici, anche in Henry Pourrat, l’uomo dell’Alvernia.
Pourrat ha avuto una produzione molto vasta anche se a tutt’oggi non completamente edita: diversi romanzi, fra cui il più noto è probabilmente “Gaspard des montagnes”, antologie di racconti, ed oltre a ciò una vasta opera (13 volumi) dedicata a raccogliere le tradizioni e le leggende dell’Alvernia e complessivamente intitolata “Tresor des Contes”. Nel volume “Maestri della letteratura fantastica”, Edy Minguzzi l’ha definito “la memoria d’Alvernia” e al riguardo ha scritto:
“L’Alvernia è una terra misteriosa, piena di demoni, di stregoni e di maghi, di animali che si trasformano, se si crede a questo diavolo d’uno scrittore che è Henry Pourrat” (4).
Un rapporto con la propria terra, con il suo folklore, con la dimensione fantastica, tutto viscerale ed istintivo, quello di Pourrat: un po’ all’estremo opposto si situa il caso di uno scrittore che della riscoperta dell’eredità celtica fa una scelta programmatica e politica. Figuratevi il caso di uno scrittore di fantascienza, uno dei molti non di lingua inglese che, come quasi tutti gli autori di fantascienza non anglofoni, indipendentemente dalla bravura, è praticamente sconosciuto fuori dai confini nazionali, che ad un certo momento riscopre la sua identità di bretone, rompe con l’espressione in lingua francese, si riappropria del gaelico bretone dei suoi antenati. È questo il caso di Louis Némo (per l’anagrafe francese) più noto con il celtico nome di battaglia (termine mai più appropriato che in questo caso) di Roparz Hemon.
Nativo di Brest nel 1900, dopo aver partecipato giovanissimo alla prima guerra mondiale, nel 1923 Louis Némo diventa Roparz Hemon, pubblicando il suo primo articolo in lingua bretone, pazientemente reimparata, su di un quotidiano. Nel 1929 pubblica “Un bretone scopre la Bretagna”, che del movimento autonomista bretone diventa una sorta di Bibbia. Ad esso fa seguito nel 1931 “An Aotrou Bimbochet e Breizh”, una storia di fantascienza in lingua bretone ambientata in una Bretagna indipendente. Segue, nel corso degli anni ’30 una vasta produzione di racconti fantastici e fantascientifici in lingua bretone. Negli anni ’40 assume la direzione della stazione radiofonica in lingua bretone di Rennes, ma, nel clima pesante instauratosi negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, accusato di separatismo, subisce un periodo di detenzione, scontato il quale decide di riparare in Irlanda, dove diventa docente all’università di Dublino, è di questo periodo il suo romanzo “Mari Vorgan”, che dovrebbe essere in assoluto il primo romanzo fantastico pubblicato in lingua bretone.
La storia che si può in vario modo accostare ad antichi miti quali quello delle sirene o la leggenda della Fata Morgana, e ad autori moderni che ci hanno mostrato il mare come un ricettacolo di presenze inquietanti collegate agli abissi insondabili delle sue profondità, H. P. Lovecraft, William Hope Hodgson, Abraham Merritt, nella sostanza è questa: Mari Vorgan, Maria Morgana è il nome che viene dato ad una figura lignea collocata sulla poppa di un veliero di Brest raffigurante una figura femminile di inquietante bellezza. Quando la nave prende il largo per fare rotta sull’oceano, comincia un susseguirsi di eventi inquietanti, diversi marinai affermano di aver visto la figura prendere vita nottetempo ed aggirarsi per i corridoi e sul ponte della nave od addirittura camminare sulle acque. Poco per volta, l’equipaggio, sedotto da quella che ha l’aspetto di una misteriosa figura di donna, impazzisce, fino a quando il medico di bordo decide di distruggere la statua scalpellandola. Nell’opera, l’uomo muore cadendo fuori bordo, ma Mari Vorgan non comparirà più sulla nave. Il romanzo è un’opera potentemente fantastica, costantemente giocata sullo sdoppiamento tra il mondo reale ed un mondo di fantasia allucinata.
La radice celtica è una radice storicamente sommersa in Europa dal prevalere di Germani e Latini, è tuttavia una radice ancora oggi ben presente e viva; senza di essa né l’uomo europeo né la sua cultura sarebbero quelli che sono, e la tradizione della nostra letteratura fantastica, mi sembra che lo dimostri, se ne vogliano apprendere la lezione, con una chiarezza che non si potrebbe volere maggiore.
NOTE
- Howard Phillips Lovecraft: “L’orrore soprannaturale nella letteratura” in, “Opere complete”, Sugar, Milano 1973.
- Ibid.
- A cura di Edy Minguzzi: Maestri della letteratura fantastica, EDIPEM – De Agostini, Novara 1981.
- Ibid.
A proposito dell’illuminismo, tra tutti i concetti da esso introdotti nella cultura occidentale a tuo giudizio qual è stato il più azzeccato?