Indoeuropeo: 5 – Aspetti culturali non linguistici / III parte

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La pratica di ricostruzione linguistica si è spinta oltre, riuscendo a individuare formule tipiche di quella che doveva essere la poesia epica degli Indoeuropei. Infatti è stata riscontrata, sia nell’epos pseudo-omerico che nell’epica indiana antica, la presenza autonoma e indipendente di un particolare carattere espressivo composto dalla coppia aggettivo + nome, come accade, ad esempio, per il greco κλος φθιτον, ”kléos àphthiton”, ed il sanscrito śràvas àksitam, “s-ra-va(s) a-kSitam” ambedue con significato di “gloria immortale” e per i quali la forma indoeuropea corrisponderebbe a *klewos -dhgwhi-tom.

In tal senso può essere fatto riferimento al lavoro di Meillet, Jakobson, Watkins, Schmitt, Householder e Nagy in relazione ai versi dell’Iliade, IX 410-416:

μήτηρ γάρ τέ μέ φησι θεὰ Θέτις ἀργυρόπεζα (410)

διχθαδίας κῆρας φερέμεν θανάτοιο τέλος δέ.

εἰ μέν κ’ αὖθι μένων Τρώων πόλιν ἀμφιμάχωμαι,

ὤλετο μέν μοι νόστος, ἀτὰρ κλέος ἄφθιτον ἔσται•

εἰ δέ κεν οἴκαδ’ ἵκωμι φίλην ἐς πατρίδα γαῖαν,

ὤλετό μοι κλέος ἐσθλόν, ἐπὶ δηρὸν δέ μοι αἰὼν (415)

ἔσσεται, οὐδέ κέ μ’ ὦκα τέλος θανάτοιο κιχείη.

Qui nella traduzione di Richmond Lattimore, ben più coerente di quelle solitamente presenti in lingua italiana:

For my mother Thetis the goddess of silver feet tells me (410)

I carry two sorts of destiny toward the day of my death.

Either, if I stay here and fight beside the city of the Trojans,

my return home is gone, but my glory shall be everlasting;

but if I return home to the beloved land of my fathers,

the excellence of my glory is gone, but there will be a long life (415)

left for me, and my end in death will not come to me quickly”.

Le due espressioni sono, per metrica e successione di sillabe lunghe e brevi, assolutamente identiche.

Nelle produzioni epiche l’uso di formule fisse sono di ausilio al poeta, la cui composizione è esclusivamente orale, nell’improvvisazione dei versi. Ciò indica che la formula ricostruita potrebbe altresì restituire una chiara informazione riguardo alla struttura metrica del verso. Un’altro esempio della comune formula in vedico e greco riguarda l’espressione isirenam manas, corrispondente a ιερόν μένος, “ieròn menos”, la “sacra potenza” dell’eroe, presente nella produzione pseudo-omerica come nei Veda oltre che in altri poemi antichi indiani.

Inoltre, secondo molti tra i quali Jakob Stensgaard, si avanza l’ipotesi che la formula omerica νυκτός μολγωι, “nyktòs amolgōi” sia riferibile ad una fase tardo-indoeuropea. Il significato letterale “nella mungitura notturna”, “nella schiuma del latte della notte“, corrisponde all’espressione “nel cuore della notte” o “nel buio notturno“, da ἀμελγω ἀμολγός, “mungere“, confrontabile con il latino mulgeo, l’olandese melk, il tedesco milch, l’inglese milk e il panslavo melko, ecc.

Questa espressione non trova in effetti spiegazione nella cultura greca. Tuttavia è comprensibile se riferita all’ambito culturale indoiranico per il quale la notte è associata a una dea madre giovenca, la quale è dispensatrice di latte. Anche in riferimento al mito astronomico greco della Via Lattea che, secondo la leggenda, nasce come schizzo di latte delle generose mammelle della dea Era, costretta ad allattare Eracle, vale la medesima considerazione.

Un’altra formula, propria della sfera religiosa, è probabilmente riferita al dio supremo del cielo *Dyeus *Werunos. Questo dio, incarnazione del cielo luminoso, è chiamato con l’epiteto εροπα, “eùryopa” da Omero e vouru-chasani nell’Apastak o “Avesta”, “testo fondamentale”, raccolta di testi di varia origine in lingua Medio-Persiana. Si tratta di un’espressione che riporta ad una antichissima formula, ricostruita come *Weuru-okwdall’ampio occhio”, “dall’ampia vista“, caratteristica tipica di un dio celeste il cui “occhio” è il sole. Un’altra ipotesi però la riconduce all’espressione *weuru-wokw, “dall’ampia voce”, “dalla voce tonante“, propria di un dio celeste la cui voce si manifesta attraverso il tuono.

Le analisi comparative giungono anche a definire una cospicua serie di caratteristiche formali dello stile epico comune alle epopee indoeuropee arcaiche. E’ il caso dell’abbondanza di coppie di termini come accade per i vocaboli “animo” e “cuore“, “cuore” e “mente“, oppure le espressioni antitetiche, come nel caso di “ricordo” e “non dimentico“, “per poco” e “non per molto“.

Certamente, trattandosi di considerazioni relative ad espressioni almeno parzialmente riconducibili al fenomeno degli archetipi narrativi ed estetici, come accade per le formule suddette, la cautela è d’obbligo.

In effetti è chiaro come molti aspetti comuni alle epiche indoeuropee siano parte integrante dello stile delle produzioni epiche di tutte le letterature.

Tuttavia gli esempi qui riportati possono essere ricondotti con una certa sicurezza alle ipotetiche forme della letteratura epica orale tardo-indoeuropea.

Inoltre, per i fenomeni legati alla letteratura orale in versi indoeuropea, un ruolo particolare potrebbe aver svolto la presenza di figure di suono come alla rima, allitterazione ed altre. La produzione poetica germanica e quella latina arcaica mostrano un largo uso dell’allitterazione. Ciononostante i parallelismi e l’uso, per quanto libero, di rime anche in testi come i poemi omerici o la Bhagavad Gita [8] indicano che l’uso delle figure di suono, essendo in poesia un espediente naturale, era diffuso sin dall’inizio.

Da quanto detto in relazione alle formule più ricorrenti della poesia indoeuropea è facile giungere ad una semplice constatazione: la società tardo-indoeuropea kurganica produceva opere poetiche di carattere epico nelle quali era espresso in quanto concetto primario quello della ricerca della “gloria”, unica possibile forma di eternità concessa all’uomo. Da ciò è facile arguire che presso gli indoeuropei il poeta rivestisse un ruolo molto particolare. Di ciò è testimonianza l’importanza che la poesia omerica attribuisce agli aedi, così come l’articolata complessità delle figure di poeti proprio dell’ambito culturale indo-ario e, ancora più recentemente, l’importanza attribuita agli Scaldi presso le popolazioni gemaniche ed anche la considerazione attribuita a figure come i Bardi ed i Filìd gaelici.

In relazione ai ai contenuti, è plausibile che nella poesia indoeuropea fossero già presenti alcuni elementi narrativi ricorrenti delle epiche appartenenti alle popolazioni indoeuropee storicamente note insieme ad alcuni miti cosmogonici ereditati dalle più antiche culture del neolitico e risalenti i periodi legati all’invenzione e alla diffusione delle tecnologie connesse all’attività agricola, come avvenuto per le popolazioni semitiche e per altre popolazioni dei territori eurasiatici. Anche argomenti come l’offesa all’eroe il quale, nel ritirarsi, è causa di disgrazia per la comunità, o il ritorno dello stesso, con il conseguente riequilibrio della situazione o, ancora, archetipi narrativi quali quello del pianto dell’eroe per la morte dell’amico, tutti schemi per altro riferibili anche ad epiche non indoeuropee, sono in ogni caso da ricondurre ad una fase molto antica.

NOTE

[8] La Bhagavad Gita, “Bhagavad Gītā”, “Canto del Divino” o “Canto del Beato“, è un poema scritto in sanscrito composto da circa 700 versi e diviso in 18 canti, contenuto all’interno del grande poema epico Mahābhārata. La Bhagavad Gītā ha valore di testo sacro ed è divenuto nella storia il testo più popolare e amato tra i fedeli induisti al punto da ottenere l’appellativo di vangelo indù. È anche considerato dai più come l’opera letteraria più bella dell’epica induista.

L’unicità di questo testo, rispetto ad altri, consiste anche nel fatto che qui non viene data un’astratta indicazione di Dio, ma la figura divina è un personaggio protagonista che parla in prima persona, e fornisce la possibilità di una Sua visione completa.

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[ Articolo pubblicato il 25/11/08 e scritto da “kommios” ]


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