La lavorazione dei metalli presso i Celti. II: ll Ferro

I Celti iniziano a lavorare il Ferro relativamente tardi, attorno al VI secolo a.C., ma lo sviluppo dell’industria e la specializzazione è molto rapida, sia perché vengono assimilate facilmente le  conoscenze dei popoli con cui essi interagiscono, sia perché essi stessi mostrano una grande abilità nell’applicarle e raffinarle.
Le tecniche di lavorazione del bronzo continuano ad essere conosciute e praticate anche quando il ferro subentra nella realizzazione di una gran quantità di oggetti. Il ferro sostituisce il bronzo per le armi, gli utensili e gli attrezzi di lavoro, laddove la sua maggiore resistenza risulta “vincente”. 

L’estrazione del minerale 
Il Ferro fonde a 1538°, temperatura molto più elevata di quella di altri metalli, e molto difficile da raggiungere in un forno fusorio dell’antichità. I reperti archeologici sembrano indicare che prima del Basso Medioevo in Europa non vi siano tracce di lavorazione del Ferro per fusione completa.
Esso veniva ricavato da minerali ferrosi attraverso una serie di processi chimici controllati empiricamente. In particolare viene estratto Ferro da due ossidi, l’ematite (Fe2O3) e la magnetite (Fe3O4), eliminando a caldo gli atomi di Ossigeno, ovvero operando un processo di riduzione.
Il minerale, in pezzatura minuta per aumentare le superfici esposte alla reazione, viene riscaldato in presenza di monossido di Carbonio (CO); l’Ossigeno presente nell’ematite o nella magnetite si lega allora al monossido dando luogo al biossido di Carbonio (CO2); gli atomi di Ferro rimangono quindi “liberi”. Il monossido di Carbonio può svilupparsi per la combustione dello stesso carbone di legna che alimenta il forno e su cui è posto il minerale, quindi può essere disponibile “naturalmente” in grandi quantità. Il processo, noto come arrostimento, porta a produrre un Ferro ricco di impurità, spugnoso, scoriaceo, che doveva poi essere nuovamente lavorato.
Sono state trovate due tipologie di forno fusorio celtico: grandi forni a cupola di diametro superiore al metro, oppure fornaci a fossa di scorie. Queste ultime sono costituite da una fossa a pozzo di diametro ridotto ( si parla di 35-50 cm), in cui venivano raccolte le scorie, e da una sovrastruttura tubulare alta circa 1 m, in cui veniva posto il carbone di legna e il minerale. Quello che ne veniva fuori era comunque una lega di Ferro con ridotte percentuali di Carbonio, e a carburazione estremamente irregolare.Oggi definiamo acciaio una lega Fe-C con percentuali omogenee e note di Carbonio, comprese entro il 2,6%; al di sopra di tale valore si ha la ghisa. In realtà il Ferro puro non era ottenibile nel passato, ma si aveva sempre a che fare con leghe di Fe-C, quindi da un punto di vista chimico si trattava comunque di acciaio, anche se estremamente disomogeneo e con percentuali variabili all’interno di ciascun pezzo; per questo motivo molto spesso si usa parlare di “ferro” per questi materiali a bassa percentuale di Carbonio.
La presenza di Carbonio, oltre ad abbassare il punto di fusione della lega, ne determina una maggiore durezza, accompagnata da un incremento della fragilità; queste caratteristiche possono essere opportunamente selezionate per gli oggetti d’uso: ad esempio, tutt’oggi per il filo delle lame si usano acciai duri e resistenti. 

[Fig. 1: piccola forgia a carbone moderna, su cui è possibile lavorare coltelli e piccoli oggetti. (foto dal sito dell’Ass. Cult. Coltellinai Forgiatori Bergamaschi) ]

Riscaldato nuovamente nella forgia, anch’essa alimentata a carbone di legna, il metallo veniva poi lavorato e battuto per espellere le scorie, omogeneizzarlo e migliorarne le caratteristiche, fino a trasformarlo in lingotti (fig. 1).Ripostigli di lingotti di peso sino a 2,5 kg, e di barre a forma di spada sono noti già dal V secolo a.C. e sino a tutto il I secolo. Depositi di scorie di fonderia, forni fusori, ripostigli sono diffusi in tutta l’area celtica; secondo alcuni sarebbero i Celti ad aver creato i primi distretti produttivi europei con lavorazione intensiva su vasta scala, collegati con miniere sia sotterranee sia a cielo aperto, come ricordano anche Cesare e Strabone.
Una volta ottenuto il lingotto di “ferro” questo viene lavorato a caldo, attraverso la forgiatura. 

La forgiatura 
La forgiatura comporta una deformazione plastica ottenuta a caldo, attraverso l’uso di utensili manuali, o, in epoche più tarde, meccanici (magli). Essa può essere la lavorazione preliminare per manufatti che vengono poi finiti con altre tecniche, e risponde ai requisiti di velocità, semplicità e risparmio di materiale (fig. 2).

[ Fig. 2: utilizzando martelli di varia forma e dimensione è  possibile modellare anche pezzi piccoli e dettagliati: esercizio di forgiatura di una foglia. Venezia, Arsenale. (foto: D. Brugali) ]

Gli strumenti in uso comprendono mazze e martelli di varia foggia e peso, cunei, nonché pinze di varia misura per tenere i pezzi da lavorare; questi attrezzi hanno forme conservative, poiché legate strettamente alla loro funzionalità; i corredi trovati nelle sepolture di fabbri dell’età del Ferro sono sorprendentemente uguali a quelli tutt’ora in uso nella lavorazione artigianale; solo l’incudine sembra essere andato incontro a modificazioni, acquisendo le corna nel corso del Medioevo e del Rinascimento.
Con questa attrezzatura elementare, e solo per battitura, è possibile allungare, appiattire, allargare, appuntire, ingrossare, tagliare, forare il metallo; si possono inoltre introdurre delle lavorazioni per torsione.
Battendo il materiale, si ottiene una omogeneizzazione e una riorientazione delle strutture interne: i reticoli cristallini del metallo infatti si riorientano lungo le direzioni di forgiatura, comprimendosi ed allungandosi; tutto ciò muta le caratteristiche meccaniche del materiale stesso. Durante la forgiatura non si ha incrudimento, poiché tutta la lavorazione è ottenuta a temperature superiori alla temperatura di ricristallizzazione (caratteristica di ciascuna lega, e al di sotto della quale la deformazione interna non può essere modificata).
Per ottenere le varie forme e spessori voluti occorre riscaldare e forgiare più volte, ripiegando il materiale e saldandolo a caldo, attraverso la bollitura ( o saldatura a fuoco o saldatura autogena). Inventata secondo la tradizione dal greco Glauco di Chio, questa tecnica nasce probabilmente molto prima, essendo strettamente legata alla necessità di forgiare il ferro scoriaceo per ricavarne lingotti (fig. 3).

[ Fig. 3: forgiatura a tre martelli di un pacchetto di acciaio damasco: il metallo viene ripetutamente ripiegato e saldato, costituendo un blocchetto “multistrato”. Ass. Cult. Coltellinai Forgiatori Bergamaschi, Romano di Lombardia, maggio 2004 (foto C. Ferliga) ]

In essa, lo strato superficiale delle due superfici da unire è portato ad elevata temperatura e quindi ad uno stato di plasticità tale che i cristalli limitrofi si compenetrano, omogeneizzando la massa; tutt’oggi il processo è agevolato con l’aggiunta di sostanze disossidanti che impediscono che subito prima della saldatura il Ferro si combini con l’aria ossidandosi.
Nella forgiatura le eventuali scorie residue si allineano, mentre il materiale assume una struttura caratteristica, fibrosa, ben evidenziata nei reperti archeologici dai successivi fenomeni di corrosione.
È probabilmente da questa necessità di lavorazione che si evolve in Europa il cosiddetto acciaio pattern-welded, ovvero l’acciaio stratificato costituito da centinaia di lamine ottenute per ripiegamenti e saldature successive, a partire da un pacchetto iniziale in cui si alternano lastre di acciai a composizione diversa; tale tecnica raggiunge il massimo sviluppo in Occidente fra VI e VIII secolo d. C. ed è ben documentata sia nelle spade vichinghe che in quelle longobarde, dove viene usata tenendo d’occhio anche gli esiti decorativi. 

Fenomeni di cementazione 
Il Ferro e le sue leghe a basso contenuto in Carbonio (parlerò di acciaio, in prima approssimazione, ovvero non nel senso moderno, industriale del termine) presentano struttura interna – cioè reticolo cristallino – diverso a seconda della temperatura. Ad alta temperatura e sino alla fusione, la struttura cristallina è quella del Ferro γ, detto austenite; nel raffreddamento esso si modifica, assumendo la struttura cristallina del Ferro α, detto ferrite. Le caratteristiche fisiche dei due materiali sono diverse, e cambiano inoltre con la percentuale di Carbonio presente.
La temperatura a cui avviene il passaggio austenite-ferrite è di 912° C per il Ferro puro, mentre scende negli acciai proporzionalmente al contenuto in Carbonio. Tutto ciò è sfruttato dal fabbro nella lavorazione dei singoli pezzi, dato che si tratta di una temperatura facilmente raggiungibile anche nell’antichità.
A temperatura superiore a quella a cui avviene il cambio di struttura, ovvero quando nell’acciaio è presente l’austenite, eventuale Carbonio a contatto con la superficie del pezzo si “scioglie” entro il reticolo cristallino, modificando la composizione dello strato superficiale del manufatto. Tale fenomeno è noto come cementazione.
Dato che nel corso della forgiatura il materiale viene ripetutamente posto a contatto col carbone della forgia, la sua superficie è naturalmente sottoposta a questo incremento del contenuto in Carbonio; quindi sin dall’antichità i fabbri avevano a che fare con un materiale la cui composizione superficiale diveniva sempre più del tipo dell’acciaio; per favorire il fenomeno, venivano inoltre aggiunte ossa o altro materiale organico. La cementazione, sia pure non controllata, è nota ed usata sino dal V secolo a. C., ed è sfruttata coscientemente nei manufatti celtici.
La profondità di penetrazione del Carbonio varia col tempo di esposizione, la sua diffusione all’interno del manufatto è però lentissima; alcuni calcoli parlano di 5 mm/h in determinate condizioni, è plausibile comunque pensare ad uno strato arricchito in Carbonio inferiore al mm.
L’effetto era però molto più importante di quanto questo esiguo spessore non faccia pensare. Poiché infatti in forgia si continua a spianare, ripiegare e saldare assieme l’acciaio, ne consegue che lo strato superficiale che ogni volta si genera viene portato all’interno del manufatto, mentre una nuova superficie viene esposta all’arricchimento in Carbonio. Questo fa sì che la composizione dell’intero pezzo risulti non solo più omogenea, ma anche complessivamente più ricca in Carbonio.
Alcuni reperti celtici (v. I Celti, 1991, p. 469) mostrerebbero addirittura una buona padronanza e consapevolezza della tecnica di saldare ad una lama un filo costituito da un acciaio più ricco di Carbonio, in modo da accoppiare alle caratteristiche di flessibilità del “ferro” quelle di durezza e tenuta del filo proprie degli acciai più ricchi in Carbonio. 

La tempra 
Il comportamento del Ferro con ridotte percentuali di Carbonio è complesso e dà luogo ad altri fenomeni interessanti.
Nel raffreddamento, come detto sopra i cristalli di austenite si modificano, divenendo cristalli di ferrite; questo passaggio comporta l’espulsione dai reticoli cristallini di una piccola percentuale di Carbonio, e quindi una modificazione minima della composizione della lega.
Se però il raffreddamento è molto veloce, gli atomi di Carbonio non riescono ad “uscire” e restano intrappolati nel reticolo cristallino della ferrite, deformandolo e dando luogo ad una nuova struttura, quella della martensite. La distorsione dei reticoli cristallini genera una durezza elevata (a parità di composizione) che sempre si accompagna ad una elevata fragilità. Questa durezza può essere però utile per strumenti d’uso, e quindi il fenomeno è stato sfruttato più o meno consapevolmente sin dall’antichità (fig. 4). Il processo attraverso il quale si forma la martensite è noto come tempra.

[ Fig. 4: coltello ispirato a modelli medievali, forgiato, rifinito e temprato (foto: C. Ferliga) ]

Scaldando il manufatto ormai completato sino alla temperatura di tempra, e poi raffreddandolo rapidamente, si “crea” la struttura martensitica; ovviamente, dato che il raffreddamento “penetra” gradualmente all’interno del pezzo, anche la tempra non sarà omogenea, ma interesserà innanzitutto lo strato superficiale; la temprabilità, cioè la capacità di un acciaio di trasmettere la tempra dalla superficie in profondità, varia con il tipo di acciaio. La temperatura ottimale per la tempra si aggira sui 50°C al di sopra di quella in cui la struttura interna del metallo, per riscaldamento torna ad essere austenitica; raggiunta tale struttura, è possibile raffreddare velocemente; siamo, come visto sopra per la cementazione, a temperature raggiungibili con una relativa facilità.
La relazione fra velocità critica di raffreddamento (quella necessaria per sviluppare la martensite; varia con la percentuale di Carbonio nell’acciaio), temprabilità di un acciaio e spessore del pezzo condiziona fortemente i risultati. Infatti se raffreddo istantaneamente la superficie esterna, ma il raffreddamento non penetra in profondità, all’interno ho le normali trasformazioni austeniteferrite, che comportano un lieve aumento di volume, quindi si generano tensioni che possono letteralmente far scoppiare il manufatto.
Per questo oggi si preferisce temprare in olio, che dà un raffreddamento meno istantaneo, permettendo che il fenomeno si diffonda meglio in profondità. In antico era utilizzata soprattutto la tempra ad acqua, più drastica ma che può funzionare su manufatti di ridotto spessore, quali lame ed utensili da taglio.
Le analisi metallografiche condotte su manufatti provenienti da oppida celtici mostrano come l’indurimento mediante tempra sia noto ed utilizzato almeno su singole porzioni di manufatti, in particolare lame.
Ovviamente la tempra veniva effettuata alla fine della lavorazione, quando l’oggetto era completato, ed interessava le parti più soggette all’uso quali le punte. 

Il rinvenimento 
Il raffreddamento brusco genera tensioni interne al manufatto, proprio perché non lascia il tempo affinché tutto lo spessore si riequilibri; inoltre può dare luogo ad eccessiva fragilità. Per questi motivi sin dall’antichità si è introdotta un’ulteriore lavorazione, detta rinvenimento.
Essa comporta un blando riscaldamento del pezzo, non sufficiente a rimuovere l’effetto della tempra, ma solo a riequilibrare la struttura interna del materiale, ed un successivo raffreddamento lento, in aria, sino a temperatura ambiente. 

Considerazioni sulla metallurgia del Ferro presso i Celti 
Come detto, la metallurgia del Ferro è un’arte che viene appresa tardi dai Celti. Ancora nella seconda metà del III secolo, Polibio narra della cattiva qualità delle spade celtiche, fatte di Ferro dolce e facilmente soggette a deformazioni a freddo durante l’uso. Tale dato sembrerebbe a sua volta desunto da Q. Fabio Pittore, quindi assume il carattere della notizia occasionale poi tramandata e trasformata in norma.
I reperti mostrano invece che “la maggior parte delle spade prese in esame erano armi efficaci munite di fili in acciaio e a volte fabbricate con tecniche elaborate” (I Celti, 1991, p. 466).
In effetti, come abbiamo visto, gran parte delle tecniche di lavorazione dell’acciaio sono legate ad una serie di fenomeni che si verificano normalmente in natura e nelle condizioni di forgia.
Vero è che la spiegazione scientifica di queste trasformazioni della struttura cristallina delle leghe Ferro-Carbonio è stata possibile solo con le moderne conoscenze sulla struttura atomica e sui legami metallici; i valori della temperatura e della composizione in Carbonio a cui avvengono i vari fenomeni è nota, punto per punto, solo oggi, grazie ad esperimenti di laboratorio e sofisticate misurazioni. La composizione stessa dell’acciaio può essere oggi controllata in maniera da poter prevedere le caratteristiche del manufatto finito, e garantirsi la massima omogeneità interna. Tutto questo, ovviamente, nell’antichità sfuggiva al controllo rigoroso.
La pratica costante dell’artigiano conferiva però la capacità di cogliere visivamente, o in base al comportamento sotto il martello, la trasformazione del materiale e le varie temperature che esso attraversava; l’esperienza insegnava che l’esito di determinate operazioni era un miglioramento delle caratteristiche, mentre altre manovre conducevano a danneggiare irrimediabilmente il pezzo; la scelta stessa di un tipo di materiale rispetto ad un altro si fondava su una consolidata conoscenza empirica delle sue caratteristiche tecniche. Tutto questo bagaglio di conoscenze, sulle quali l’artigiano fabbro basa tutt’oggi il proprio lavoro, era alla portata anche dei fabbri del passato, e si accresceva e consolidava nella trasmissione dell’arte di padre in figlio.
Non è un caso se in tutte le culture antiche il fabbro è una figura socialmente rilevante e molto spesso avvolta da un alone di sacralità, in quanto depositario di un sapere quasi iniziatico, prezioso per la società ma non facilmente acquisibile da chiunque in tempi brevi.
Proprio in questa cornice si colloca la buona padronanza mostrata dai Celti in una lavorazione che apparentemente richiederebbe delle conoscenze scientifiche di gran lunga superiori a quelle della loro epoca, e testimoniata da autori come Plinio, che celebra la qualità del ferrum noricum (citato in I Celti, 1991; non vidimus). I fabbri celti possono quindi essere visti a ragione come gli iniziatori della grande tradizione della siderurgia europea.

Bibliografia 
AA. VV. , 1991 – I Celti: Catalogo della mostra. Venezia, Palazzo Grassi. (ristampa 1997). Bompiani.
Cavallini M., Iacoviello F., 2003 – Materiali metallici. Francesco Ciolfi Editore.
Giardino C., 2002 – I metalli nel mondo antico – Introduzione all’Archeometallurgia. Bari
Jones Lee A. – The serpent in the sword: pattern.welding in early medieval sword.
La Salvia V., 1998 – Archeometallurgy of Lombard Swords. Quaderni del Dip. Archeologia e Storia delle Arti, Università di Siena.
Leoni M., 1984 – Elementi di metallurgia applicata al restauro delle opere d’arte. Opus LIbri, Firenze.
Nicodemi W., 2000 – Metallurgia: principi generali. Zanichelli 
Inoltre appunti del corso di Archeometallurgia tenuto da A. Ervas, Isola del Lazzaretto Nuovo, Venezia, agosto 2005. 
Forgia e manufatti in ferro: Ass. Cult. Coltellinai Forgiatori Bergamaschi.

[ Articolo pubblicato il 29/05/06 e scritto da “arianna” – Carla Ferliga ]


Rispondi